Campus

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Quando ho raccontato l'estate del mio primo amore, ho dovuto omettere un passaggio fondamentale. E ho dovuto farlo per un motivo preciso, che ora capirete perché finalmente posso parlarne.
Sono passati cinque anni dalla pubblicazione del libro e ora, a causa di certi eventi accaduti dopo qualche anno, posso scrivere tutta la verità.
Nient'altro che la verità.
Lo giuro.
Adesso, quello che ricordo di quell'intermezzo tra l'estate in cui ci siamo conosciuti e quella in cui ci siamo rivisti è un mix di sensazioni contrastanti, una gamma di sentimenti incredibilmente ampia, se si pensa che erano concentrati su una sola persona. Ovviamente all'inizio dominava il dolore per averlo perso, il rimpianto di non aver vissuto nella loro interezza tutti i giorni a nostra disposizione, probabilmente per puro orgoglio o, peggio, assoluta paura. Il dolore venne mitigato settimane dopo da una sorta di tenerezza, nata dal ricordo di quello che avevamo avuto, quei giorni meravigliosamente speciali che avevamo quasi rubato alle nostre rispettive vite, due ladri felici ed eccitati, spensierati e completamente persi l'uno nell'altro. La nostalgia è un sentimento dolce quando è passato sufficiente tempo da far quasi sparire il dolore.
Poi c'è stata una vena di rabbia, per come era finita e per quei pochi istanti in cui ci eravamo rivisti a Natale, quando Oliver (che emozione scrivere di nuovo il suo nome) ci aveva annunciato quasi con sfida (o era anche vergogna?) che si sarebbe sposato presto. All'epoca vinse la rabbia perché un altro dolore come quello dell'estate precedente non l'avrei sopportato. Sarebbe stato troppo, pensavo che non mi sarei più ripreso. Allora l'ho odiato (se di odio si può parlare, se odio è il nome esatto per il sentimento che si prova verso qualcuno che abbiamo amato al di là di noi stessi e che ora ci sta facendo tutto il male possibile), lui e la sua futura e sconosciuta moglie, quella donna sciocca e vana (perlomeno così me la immaginavo io) che me lo stava portando via per sempre, che gli aveva cancellato dalla mente il ricordo dell'estate trascorsa con me, e in definitiva il mio ricordo.
Per me, se non poteva essere bianco, era nero, se lui sposava un'altra allora non mi aveva mai amato. Non ero davvero così immaturo, nemmeno a diciassette anni, ma Oliver mi aveva travolto quell'estate e, quando si trattava di lui, non riuscivo a essere razionale o maturo o intelligente o qualsiasi cosa fossi in realtà. Con lui ero solo un agglomerato di istinti. E lui lo sapeva, perché anche lui era così. E allora perché rinnegare tutto e sposarsi?

La domanda che mi tormentava più di tutto era: perché non poteva aspettarmi nemmeno per un anno? Sapeva benissimo, a Natale come anche l'estate precedente, che l'anno seguente sarei stato negli Stati Uniti per l'università (finalmente) e dunque cos'era un misero anno in confronto alla felicità che avremmo potuto avere?
Era davvero così cieco (o superficiale) da non averci pensato? Io non pensavo ad altro, ogni giorno, non vedevo l'ora di rivederlo e parlare, fare progetti con lui, riannodare stretto il filo. E naturalmente avremmo fatto l'amore. Ardevo dal desiderio di farlo. Altra espressione trovata in mille libri, che non ho capito finché non ho conosciuto Oliver. Ogni centimetro della mia pelle, persino i miei tessuti interni, bruciavano di una febbre quasi metafisica ogni volta che pensavo a lui o ero vicino a lui. Al contrario di quanto è nell'immaginario collettivo, non solo questa febbre non si è spenta dopo aver fatto l'amore con lui per settimane, ma veniva alimentata di continuo dalla sua presenza prima e dal suo ricordo dopo. Rivederlo a Natale dopo solo cinque mesi mi sembrava un dono, un segno diretto degli dei.
Invece l'Oliver che si presentò quel giorno era diverso. Era come se non ci fossimo mai sfiorati, come se non ci fossimo mai uniti anima e corpo. Era un Oliver distaccato, assente, freddo. E quando ci disse del matrimonio pensai di aver capito il motivo di tanta glacialità. Invece no, ma ne parlerò più tardi.
Natale dunque venne e passò, lasciandomi l'amaro in bocca. Cosa dovevo fare ora della mia vita? A quale scopo mi sarei dedicato con tutto me stesso, visto che il principale mi era stato portato via con tanta calma piatta? Quasi non volevo più guardare al futuro, i college americani che mi proponeva mio padre mi erano odiosi, perché non avrebbero più avuto lo scopo di portarmi da lui.
Ma anche questo periodo passò, o almeno si attenuò quell'amarezza acida che serrava la gola e bruciava gli occhi.
Scelsi il college, sulla costa orientale, uno dei più prestigiosi. Non che mi comportasse particolarmente, lo scelsi solo perché avevano un ottimo corso di storia e letteratura americana e un ottimo programma musicale. E ovviamente non era lì che insegnava un certo prof di filosofia. Avevo accuratamente evitato qualsiasi corso affine, preferendone di alternativi, perché non avrei sopportato nemmeno una lezione su Eraclito.
Il semestre iniziava a ottobre, ma a metà luglio volai per la prima volta al campus, per sbrigare alcune formalità burocratiche e per cercare alloggio. L'idea era stare nello studentato, ma per le matricole non c'erano a disposizione stanze singole, ovviamente. Nemmeno doppie. Si trattava di vivere in quadrupla e, onestamente, era più di quanto potessi sopportare, io, principino viziato abituato a stanze intere a mia disposizione. Fortunatamente, mio padre mi conosceva abbastanza bene (e lo aveva ampiamente dimostrato, se non altro alla fine dell'estate precedente) da sapere fin dove potessi spingermi. Quando capì come stavano le cose, mi disse semplicemente di non preoccuparmi, che avrebbe pensato a qualcosa.
Partii quindi a luglio con un nome e un indirizzo nelle vicinanze del campus.

John da un uomo sui quarant'anni, giovanile più che giovane, e venne a prendermi in macchina all'aeroporto.
-È stato piacevole il volo?
Ah, il conforto di una conversazione casuale e non impegnativa, quelle in cui non devi accendere nemmeno un millesimo di cervello per rispondere. Non era tanto il jetlag reale quello che mi stava spossando, ma una sorta di jetlag mentale, sapere di stare nel suo stesso fuso orario mi portava stranamente un senso di dejà-vu al contrario: ero io a essere in un Paese straniero stavolta. Ma sapevo che avrei fatto di tutto per non incontrarlo.

A quanto pare, più facile a dirsi che a farsi.

-Spero che l'appartamento ti piaccia, che ti ci trovi bene. Io l'ho usato al college e, nonostante sia un po' piccolo, mi sono divertito.
Il tipo non aveva idea di chi fossi, mi parlava come a un ragazzino che prende il college come l'ultima possibilità di fare follie prima della vita reale. Probabilmente aveva conosciuto solo persone del genere, persone come lui stesso.
Si vede sempre negli altri quel che siamo.
In un'ora e mezza (fortunatamente per il resto del viaggio mi lasciò riposare perché pensava fossi stanco dal volo) ci trovammo davanti al mio nuovo appartamento, a due passi dal campus, ma abbastanza distante dal casino studentesco.
John fu gentile, mi accompagnò fino alla porta, aiutandomi con il bagaglio, e mi diede appuntamento per il giorno successivo a pranzo. Mi avrebbe portato un po' in giro per farmi orientare, dopodiché per una settimana me la sarei cavata da solo tra tutte le cose che avrei dovuto fare. Poi sarei ripartito e sarei tornato dopo due mesi, definitivamente. Stavolta avevo portato due valigie, una piccola con i vestiti per questa settimana e qualche libro (chi mai poteva viaggiare senza?), l'altra grande da lasciare qui, con alcuni vestiti invernali. John si era offerto di riaccompagnarmi poi in aeroporto, ma per qualche motivo rifiutai. Non mi andava a genio dover rifare un'ora e mezza di viaggio ascoltando il chiacchiericcio superficiale di John.
A quell'epoca classificavo le persone dal primo istante, unicamente basandomi sull'istinto, senza concedere nessuna possibilità. Non credo sbagliassi completamente, ma col tempo sono diventato meno intransigente.
Almeno credo.

L'appartamento non era male, piccolo sì, ma pulito e dotato di ogni spartana comodità. Lo ricordo benissimo, nonostante ormai siano passati anni. Come non potrei?
Soggiorno con angolo cottura, camera da letto abbastanza spaziosa e bagno.
Se tutto fosse andato secondo i miei piani, quella stanza sarebbe stata mia per almeno quattro anni, a meno di fare un dottorato post-laurea (anche questo nei piani, ma non avevo ancora deciso dove).
Malgrado tutto, gli occhi mi si chiudevano. Feci appena in tempo a farmi una doccia che crollai a letto di schianto.
Mi svegliai il mattino dopo quando sentii un trillo sconosciuto e insistente. Mi resi conto che era un telefono che squillava. Un pensiero flash: non avevo chiamato i miei!
-Pronto?
-Elio, tutto bene?
-Ciao papà.
-Dormivi?
Dopo varie rassicurazioni riappesi e guardai l'ora: avevo dormito 14 ore. John sarebbe arrivato di lì a un paio d'ore, così tornai a letto per una mezz'oretta ancora e poi mi preparai.
La giornata passò in un modo o nell'altro, ne ho un ricordo nebuloso perché non ero riuscito a scrollarmi la stanchezza di dosso, ma in qualche modo arrivai alla sera e fui di nuovo solo in casa. Halleluja.
Quella sera a letto quello che mi sfuggiva era come una persona come mio padre potesse conoscere una persona come John. O almeno, conoscerlo abbastanza da lasciarmi nelle sue mani per una settimana (e i successivi quattro anni a casa sua). Papà era stato un po' vago ma lì per lì non avevo dato troppo importanza alla cosa, impegnato com'ero a fingere che del college non me ne importava nulla, facendo il superiore, quando invece sotto sotto eccitato lo ero.
Knock-knock.
Qualcuno bussava piano alla porta. Non conoscevo nessuno, John era andato via da poco, chi poteva essere?
Stavo per aprire ma poi mi ricordai dov' ero e chiesi, con la mia voce più impostata:
- Chi è?
Uno, due, tre secondi.
-Elio.


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Ciao a tutti, questa è la prima volta che pubblico qualcosa, sono abbastanza emozionata.
Spero che leggerete la storia, che commentiate in tantissimi e, se apprezzate, lasciatemi una stellina 💜
Grazie in anticipo!!
AR

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