-Elio.
Era un sussurro, quasi non percepibile. Ma era una domanda o la risposta alla mia? Perché per me aveva senso in entrambi i casi e forse era proprio così che era stata pronunciata, a metà tra domanda e affermazione, a metà tra me e lui. Perché quella voce, quella voce così inconfondibile, così amata, era la voce di Oliver e Oliver era anche me stesso.
Dovetti aprire.
Niente avrebbe potuto fermarmi.
L'impatto fu strano: la porta che avevo aperto aveva portato con sé il suo profumo, quel profumo che un'estate prima mi aveva portato all'estasi, che conoscevo così bene, che era diventato parte del mio.
Non mi sembrò di provare nulla, mi sentivo rigido e tiepido come il legno di una panca rimasta al sole primaverile.
Oliver era bellissimo, questo ricordo di averlo pensato. Aveva dei calzoncini beige e la maglietta celeste che già gli avevo visto l'estate scorsa. L'aveva fatto apposta? Era una sorta di messaggio? O inconsciamente voleva farmi sapere che anche per lui era stato speciale e ricordava ogni momento? Ma una maglietta poteva dire così tanto? Magari era solo un caso. Ma casi come questo esistono? O solo gli sciocchi non li riconoscono per ciò che sono? È cosa sono? Dichiarazioni?
Ok, stavo per impazzire.
-Posso entrare?
Mi scostai, ancora incapace di parlare. Volevo chiedergli perché era venuto, come mi aveva trovato e all'improvviso capii tutto.
-Sei tu che hai presentato John a mio padre.
Oliver capì al volo.
- Il prof mi ha scritto chiedendomi se conoscessi qualcuno che affittava appartamenti in zona campus.
-Sei stato tu a dire a mio padre di non dirmelo?
Dovevo saperlo, non so che tipo di risposta mi aspettassi né cosa mi avrebbe fatto meno male, ma dovevo assolutamente saperlo.
-Elio, non potrei mai dire una cosa del genere a tuo padre.
-Ti ho già detto che lo sa.
Era un accenno implicito al Natale scorso. Volevo vedere se avrebbe ripreso l'argomento, volevo sapere del suo matrimonio, se c'era già stato. Ma quella mia frase un po' amara era servita anche a nascondere l'improvvisa gioia che mi era esplosa dentro.
Avevo chiuso la porta ed eravamo in piedi, nel mezzo del soggiorno. Oliver si guardava intorno forse per avere qualcosa da fare e non guardarmi negli occhi, ma alla fine dovette farlo. E lesse l'unica domanda che volevo fargli ma di cui non volevo sentire la risposta.
- Mi sposo sabato.
Il lampo di dolore che mi attraversò il petto fu improvviso, profondo e molto, molto arrabbiato, ms sperai di essere riuscito a nasconderlo.
-È una notizia meravigliosa.
A quanto pare, nonostante il mio solito eloquio, quando si trattava di ripondere a quell'affermazione non riuscivo a trovare altre parole, le stesse che avevo detto a Natale.
Oliver sorrise. Ci aveva pensato anche lui. Era ancora come un anno fa, quando potevamo guardarci e leggerci nel pensiero, così facilmente da non crederci. E ci era bastato un secondo per tornare a quel tempo. Questa era una cosa che mi uccideva e nello stesso tempo mi resuscitava.
Oliver era il colpo mortale sparato al mio cuore adolescente e anche il chirurgo che, in fretta e senza sbavature, ricuciva la ferita e mi riportava in vita.
Continuai a guardarlo negli occhi e poi, senza quasi accorgermene, feci un passo verso di lui, avvicinandomi di poco. Lui rimase immobile, forse paralizzato dall'indecisione o dalla paura o dal dovere o da tutte queste cose insieme. E io quasi rinunciai. A Natale aveva messo le cose in chiaro. Sentii le spalle incurvarsi e stavo per distogliere lo sguardo e voltargli le spalle, quando anche lui fece un passo verso di mr, quasi inconsciamente.
Ora eravamo a cinque centimetri di distanza. Lo guardai con una nuova speranza e quello che vidi mi fece quasi sobbalzare.
Fallo tu!
I suoi occhi, che mi guardavano come se dovessero scolpirmi a fuoco, mi raccontarono in un attimo tutto quello che volevo sapere. Non avrebbe fatto altri passi, ma non si sarebbe mai tirato indietro se avessi fatto io la prima mossa.
Mi sfidava a prendermi quello che morivo dalla voglia di avere? Sfidava il mio orgoglio? Non credo. Voleva solo una scusa per cedere.
E io volevo dargliela.
Coprii rapidamente la distanza che ci separava gettandogli le braccia al collo, abbracciandolo realmente per la prima volta dopo un anno. Assaporavo la sua fisicità, i contorni del suo corpo, il suo calore, il suo odore, in una sorta di estasi. Estasi che arrivò a livelli incredibili quando sentii che le sue braccia si stringevano intorno al mio corpo, stringendomi forte da togliermi il fiato (prendilo, Oliver, è sempre stato tuo!).
Gli baciai la spalla, la rotondità soda del deltoide, il triangolo tenero di pelle tra il braccio e il torace, seguii il contorno della clavicola con la lingua e le mie mani, che nel frattempo lo accarezzavano dietro la nuca, spinsero la sua testa verso di me, senza incontrare alcuna resistenza, mentre le mie labbra finalmente trovavano le sue.
Quanto mi era mancato il suo bacio lo seppi con esatto dolore solo quando le nostre labbra si sfiorarono, quando finalmente la mia lingua assaggiò di nuovo il sapore della sua bocca e quando sentii la sua lingua che non solo rispondeva alla mia ma ritrovava la familiarità dei mille baci che ci eravamo già scambiati.
Non voglio dire che l'anno di separazione si era annullato in quel bacio, che era profondo come più non avrebbe potuto, semplicemente si ridusse in prospettiva: ci eravamo rivisti, avevamo potuto riabbracciarci sul serio, quello che era stato era finito, ora potevamo guardare avanti. Partire da qui. Almeno così credevo.
La mia bocca stava già facendo quello che aveva desiderato per mesi, le mani non potevano stare ferme: cercai il contatto più immediato, pelle contro pelle, infilandogliele sotto la maglietta.
Quando lo toccai era bollente, le sue labbra si staccarono dalle mie con un risucchio ben distinto, Oliver gettò la testa indietro come se gli avessi colpito un nervo e mi strinse ancora di più. Aderii al suo corpo e sentii la sua erezione.
Lo trascinai in camera da letto. La finestra era aperta ma nessuno poteva guardare dentro, perché non c'erano edifici nelle vicinanze. Si sentivano i grilli frinire tutto intorno. Proprio come un anno prima. La stanza era diversa, il letto era estraneo, ma Oliver era sempre lo stesso, con gli stessi gesti (forse con più foga di allora), gli stessi gemiti, gli stessi punti deboli. Rischiammo d'impazzire quella notte. A un certo punto non sapevo se fossero lacrime, sudore o saliva, quello che sentivo addosso. Forse il nostro amore non poteva esistere se non in presenza di tutte le nostre secrezioni.
Rimanemmo stesi, abbracciati per ore, senza parlare, senza cercare inutili giustificazioni o spiegazioni e soprattutto senza illusioni. Avevamo ceduto a qualsiasi cosa ci fosse tra noi, qualcosa a cui non avevamo mai dato un nome, né volevamo farlo, e non avevamo intenzione di rovinare quel momento con le parole. Sapevamo quello che dovevamo sapere e avremmo fatto quello che dovevamo fare. In teoria.
Verso l'alba, quando pensavo che Oliver si fosse addormentato, e stavo anch'io per farlo, sentii il suo sussurro:
-Oliver...
Sorrisi e, scivolando tra le braccia di Morfeo, non sapendo quanto tempo avrei avuto stavolta, sussurrai:
-Elio...Mi svegliai da solo nel letto. Scattai seduto ma subito lo vidi in piedi di fronte al mio armadio spalancato. Mi sentì, evidentemente, perché si voltò con un sorriso segreto e mi disse:
-L'hai portata.
Eccola là, tra le sue mani c'era svolazzina, la camicia che gli avevo chiesto di lasciarmi come ricordo. Mi venne da ridere. Se l'avevo portata? Non me ne ero mai separato. Ogni sera la portavo con me nel letto e fingeva che dentro ci fosse lui, in carne e ossa. Per qualche giorno mi ero addormentato in mezzo al suo odore, un odore fantastico di qualcuno che non c'era più e che la mattina mi faceva venire lacrime di frustrazione, quando realizzano di essere solo e che i giorni dell'estate più bella della mia vita erano finiti. Mi alzai, gliela presi dalle mani e la accarezzai con tutta la dolcezza di cui ero capace.
-Devi indossarla ancora, tutto il tempo che sarai qui.
Ed eccolo lì il nuovo limite, la nuova scadenza. Quanto tempo stavolta?
-Sabato...
-Lo so, me lo hai già detto.
Mi guardava come se si aspettasse che dicessi qualcosa, ma cosa avrei potuto dirgli? Non farlo, ama me per tutta la vita? Non erano parole che sarebbero mai uscite dalle mie labbra, lo sapevo io e lo sapeva anche lui. Se voleva questa scusa, non gliel'avrei fornita io. Non era orgoglio, tutt'altro. Sapeva benissimo che gli avrei dato qualunque cosa, bastava che me la chiedesse. Bastava che mi facesse vedere, sentire, percepire che voleva me e basta, per sempre. E allora sarei stato suo e di nessun altro.
Avevo diciotto anni appena, ma il per sempre non mi spaventava minimamente, specialmente se comprendeva un certo professore americano.
Ma lui non disse nulla.
Mi prese svolazzina dalle mani e, così com'era, sgualcita, evidentemente usata, se la infilò. Poi disse che venerdì sarebbe andato via.
Quattro giorni appena, dunque.
Non volevo trascorrerli ubriaco fradicio, come a Roma. Glielo dissi e lui sorrise, un sorriso che in realtà erano lacrime, nostalgia e forse rimpianto. No, mai rimpianto. O forse sì? Non glielo chiesi e distolsi lo sguardo.
- No, stavolta no.
Non so perché, ma il suo tono sicuro di sé e un po' pensieroso mi fece alzare gli occhi per guardarlo: era serio e aveva una strana luce nello sguardo, come se in quel momento avesse preso una decisione. Forse era davvero così ma io sarei rimasto all'oscuro.
Mi avvicinai e gli accarezzai i fianchi al di sotto di svolazzina, cercando di assorbire nelle mie mani parte dei suoi tessuti, delle sue cellule, per poi riprenderlimquando fossi stato di nuovo solo. Appoggiai la testa alla sua spalla e sentii le sue mani accarezzarmi la schiena, con un movimento lento e dolce, che sembrava infinito. All'improvviso affondò le dita nei miei capelli e mi baciò con passione sulla bocca. A lungo, profondamente. Voracemente.
Sentivo il suo uccello che premeva contro il mio inguine e il mio contro il suo, eravamo tesi fino allo spasmo. Tornammo a letto, per quasi tutta la mattina, cosa che non era mai successa a B. Ma ora non dovevamo render conto a nessuno, il tempo era nostro. Niente genitori, niente lavoro, niente Mafalda, niente Chiara.
Eravamo davvero liberi per la prima volta.
Per tutti e quattro i giorni vivemmo in un paradiso artificiale, che presto si sarebbe sfaldato e avrebbe rivelato solo la nuda realtà.
Mi aspettavo che quei quattro giorni cambiassero la situazione? Che grazie ad essi Oliver rinnegasse ogni impegno preso? E cosa avremmo potuto fare anche in quel caso? Fuggire insieme? No, quelle erano solo favole. Sogni che uno poteva accarezzare ogni tanto, nel bel mezzo della vita, solo per qualche attimo di...cosa? Felicità? Possibilità? Eternità? Forse. Da parte mia sapevo che avrei ripensato al tempo con Oliver molte volte, ogni tanto con dolore, o con nostalgia, o con tenerezza. Ovviamente anche con desiderio.
Dio, che male avrebbe fatto...
Ma mio padre mi aveva avvertito l'anno prima: se non volevo uccidere anche la gioia, dovevo imparare a gestire il dolore. Era stata una grande lezione, quella che aveva cercato di darmi e che sto ancora imparando, ogni giorno, specie oggi che lui non c'è più.
STAI LEGGENDO
CMBYN - LATER
FanfictionCopyright: TUTTI I DIRITTI RISERVATI!! In tempi non sospetti, molto prima che uscisse l'immondo, insignificante, mistificante, mortificante, inutile, incongruente, proemetico sequel, avevo scritto la mia versione della storia. Sarò presuntuosa, ma c...