Capitolo 16

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Quella mattina mi svegliai particolarmente nervosa.

Scalciai via le coperte, e quasi non finii per inciampare sul mio stesso lenzuolo quando poggiai i piedi a terra.

Alzai gli occhi al cielo e feci un bel respiro profondo, poi aprii le tende e le tapparelle e il sole di metà Aprile mi infuse una stilla di buonumore.

Mi ero alzata presto perché quella sera avrei dovuto cominciare la prima seduta di ipnosi regressiva, e avevo bisogno di recarmi al cimitero per poter parlare con lui.

Per quanto strano potesse apparire quella mia abitudine dall'esterno, io e lui facevamo lunghe chiacchierate. Mi fermavo regolarmente a trovarlo, mi sedevo e cominciavo a parlare, avendo la netta sensazione che lui mi ascoltasse e che mi rispondesse, chiedendo in prestito la voce al vento, che soffiava più forte o più lento in relazione alle mie domande.

Sì, forse stavo proprio perdendo il senno, ma in quel modo riuscivo a sentirlo più vicino, come se non ci fossero le barriere del tempo a separarci. A volte, mentre ero seduta e mi perdevo nei miei discorsi, sentivo dei passi avvicinarsi sempre di più, vedevo addirittura i ciottoli venire scalciati, e il rumore si fermava proprio alle mie spalle.

Allora, per non interrompere l'incantesimo, non mi giravo, ma restavo ferma e continuavo a parlare con la sensazione che non era più la semplice foto che mi ascoltava, ma che lui era alle mie spalle in ginocchio, fatto di luce e spirito, e annuiva o scuoteva la testa ogni volta che gli facevo una domanda.

I flashback di quella sera cominciarono a palesarsi non appena i miei occhi si posarono sul viale alberato, lo vedevo ancora lì, nitido nella sua uniforme mentre mi aspettava prima di andare via.

Raggiunsi il quadrato, e guardai la sua foto con un sorriso.

Mi avvicinai e mi sedetti sulla lastra marmorea, come ero solita fare, ma qualcosa attirò immediatamente la mia attenzione.

Quando capii di cosa si trattava mi si gelò il sangue nelle vene: accanto alla cornice sbiadita, tra le foglie cadute e gli aghi di pino, luccicava qualcosa di molto piccolo.

Era un anellino, e quando lo presi tra le mani capii che era il mio anellino, quello che avevo perso giorni prima.

"Ma come..." mormorai, mentre me lo rigiravo tra le dita quasi come se volessi accertarmi che fosse davvero quello che avevo perso.

Non riuscivo a spiegarmi come fosse possibile che dopo una settimana l'avessi ritrovato lì, appoggiato placidamente accanto alla sua foto, come se qualcuno l'avesse trovato e l'avesse conservato apposta per me.

"Non ci capisco più niente" dissi ridendo, e mi portai una mano al volto, infilandomi l'anello al dito.

Era in quegli istanti che sentivo il bisogno di avere un corpo da abbracciare, di potermi alzare e avere la possibilità di sentire un petto su cui affondare la faccia, una schiena alla quale aggrapparmi senza dover necessariamente immaginare ogni cosa.

E invece, mi ritrovavo con la mano sul suo viso coperto da un vetro logorato, ad accarezzare la foto più del dovuto, e a mordicchiarmi il labbro per non piangere ancora e ancora, consapevole che fosse l'unica cosa che mi era rimasta di lui.

In quel momento decisi che la fedina l'avrei unita ad una collana per evitare di perderla ancora, non l'avrei sopportato.

Quel semplice anello per me era diventato una prova tangibile che il velo tra i nostri mondi era stato squarciato, in maniera inequivocabile e inspiegabile, e che quel soldato stava cercando di mostrarmi la sua presenza in ogni modo possibile.

Mi alzai, aggiustandomi lo zainetto nero sulle spalle, gli mandai il solito bacio prima di allontanarmi, e qualche istante prima di varcare completamente i cancelli, mi squillò il cellulare.

"Rievocazione storica, sabato pomeriggio".

Lo smartphone mi aveva ricordato con un trillo che non avevo ancora fatto sapere nulla ad Alexander.

Mi girai verso GB ancora una volta e gli chiesi: "Dovrei andare?" come se mi aspettassi una risposta.

Dalla cover del cellulare estrassi il biglietto da visita con sopra scritto il numero di telefono di Alexander, lo digitai velocemente sul cellulare e composi un messaggio:" Ciao, sono Emma, la ragazza della libreria. Per sabato ci sono, appena puoi fammi sapere".

Lo osservai per qualche istante di troppo, poi premetti invio perché sapevo che se avessi esitato ancora avrei finito per cancellare di nuovo tutto e mandare all'aria l'occasione di avere qualche risposta.

Quando stavo per mettere in moto, il trillo del cellulare mi fece capire che avevo ricevuto una risposta, che diceva:" Salve, signorina. Ci vediamo dopo in libreria".

Bloccai il cellulare e lo rimisi a posto, cercando di capire perché quella risposta aveva cominciato ad agitarmi.

Ero quasi arrivata a lavoro, e mentre stavo per accostare sul lato destro, mi accorsi che Alexander era già arrivato, con la schiena appoggiata allo sportello della macchina, le braccia conserte e il sole che gli illuminava i capelli chiari.

Quando si accorse di me mi rivolse un sorriso, io tentai di fare la stessa cosa, ma ne uscì soltanto una smorfia.

Strinsi l'anellino che tenevo sul dito e sperai che non stessi commettendo l'ennesimo, grande sbaglio.

* * *

Nota dell'autrice:

Spero che il nuovo capitolo possa piacervi, fatemi sapere le vostre sensazioni a riguardo.
Cosa ne pensate dell'anellino?
Vi è mai capitato un episodio simile, che non siete riusciti a spiegarvi?

Intanto, buon lunedì!
Emma.

Ci rincontreremo un giorno d'Aprile || CompletaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora