Capitolo Uno

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Ascolta: All My Trials - Joan Baez

Johanna odiava il suo compleanno.
Da bambina, perché veniva agghindata dalla madre con nastri e fiocchi, per venire esibita in un pomposo ricevimento nel mezzo del giardino curato, come un piccolo trofeo paffuto e incipriato.
Da fanciulla, a diciotto anni, perché rimembrava le feste del passato, durante le quali veniva celebrata come una sorta di regina in miniatura, con personaggi facoltosi che convergevano verso la sua casa da tutto l'Alabama; corrotti re magi dalle mani sporche di sangue. 

Era l'11 maggio del 1961, e la festeggiata non era più quella bambina imbarazzata, avvolta in sfarzosi completi di taffetà; bensì una graziosa fanciulla, scaltra e raffinata, distante dalla volgare aristocrazia dalla quale proveniva. Dopo aver contemplato a lungo gli alti grattacieli che si stagliavano imponenti contro il cielo terso, rivolse un'occhiata premurosa verso il padre, intendo a leggere il "New York Times".
Passò delicatamente i polpastrelli sulla superficie liscia del davanzale, ridipindo da lei stessa la settimana precedente, e abbandonò la postazione dalla quale per anni aveva osservato le surreali luci della città per intere nottate.

«Giorgio sarà qui a momenti, Jonie.» Disse dolcemente il padre, con la sua classica compostezza, intigendo le parole di quella sicurezza di cui lei aveva bisogno. Ethan Zimmerson, onesto avvocato penalista, era uno degli uomini più rispettabili di tutto il Lower East Side.

«Non ti manca Montgomery, papà?»
«Se mi mancasse, non sarei seduto su questa poltrona nordista, fumando tabacco yankee, leggendo il Times come un qualsiasi giurista dello stato di New York.» Rispose Ethan con una punta di sarcasmo, il capo spoglio di capelli che rifletteva la luce del lampadario in ottone. Johanna sorrise, l'aveva sempre preso il giro per la sua calvizie.
«Credo che Giorgio mi stia aspettando. Farei meglio a mettermi le scarpe.» Sospiró la fanciulla, controllando l'ora sul quadrante del piccolo e raffinato orologio, dal cinturino in cuoio, che un'amica le aveva portato da un negozietto vintage di San Francisco.
«Una volta dovresti invitare Giorgio a bare qualcosa con noi, cara.» Mormorò l'uomo distrattamente, sfogliando la pagina del giornale.
«Papà, io ho diciotto anni. Di certo, non mi metto a bere assieme a te.» Ridacchiò la fanciulla dalla figura armoniosa, chinandosi sulla poltrona per lasciare un delicato bacio sulla fronte liscia del padre. «Un giorno ti farai un bel whiskey con il tuo vecchio, vedrai. Magari potremmo fumare anche sigari della Havana. Che ne dici?»
«Dico che devo andarmene prima che tu realizzi quanto sarebbero poco convenzionali, agli occhi di un genitore nato prima della guerra, tutte queste azioni.» Johanna attraversò a piccoli passi il salotto, con i tacchi che riecheggiavano sul parquet appena lucidato. Afferrò il cappotto beige, tagliato in stile parigino, e si voltò verso il padre: «Ricordati di riporre il disco che stai ascoltando, "Dust Bowl Ballads", nella libreria. I 78 giri di Woody Guthrie sono introvabili, e non possiamo tornare in Alabama per procurarceli!»
Ethan, come un bambino che ignora la ramanzina del genitore, incrociò le gambe e si nascose dietro la prima pagina del New York Times.

Le ultime parole che pronunciò prima che la graziosa figlia uscisse, per andare a festeggiare i diciotto anni assieme all'amante, furono: «Non farti investire da un taxi sulla Fifth Avenue, Jonie. La nostra assicurazione non potrebbe coprire i danni. Bonne Soirèe, ma chère! » 

Giorgio Savio era un bel ragazzo di sangue italiano, attivo nella frangia politica della sua università ed esponente della sinistra studentesca, che durante  anni '60 negli Stati Uniti combatteva contro la segregazione razziale, la guerra in Vietnam e l'establishment repubblicano.

Di umili origini, ma di aspetto distinto, aveva fatto breccia nel cuore del prodigio della Columbia, la bella figlia dell' avvocato Zimmerson, simbolo della lotta per i diritti degli afroamericani, e manifesto del movimento per i diritti civili.
Si diceva che il signora Ethan fosse dovuto andar via da Montgomery, in Alabama, perché aveva portato in tribunale un ricco bianco con l'accusa di aver abusato di una giovane domestica nera.

Johanna, bellissima e raffinata come sempre, attraversò l'androne del palazzo in stile neoclassico che si affacciava su Washington Square, e sorrise raggiante non appena lo vide.
Giorgio non poteva lasciarsi prendere dal panico, quella era la sua occasione, e non aveva alcuna intenzione di rimanere impantanato nel fango depositato ai lati della 14ª Strada.
«Papà si è lasciato sfuggire che ci dirigereremo sulla Quinta Strada. Quindi, facendo una rapida ricognizione, deduco che la fermata del taxi sarà il Metropolitan.» Gli occhi dorati, di un pigmento così intenso da fare invidia all'oro delle opere bizantine, brillavano di intelligenza e di scaltra astuzia.
«Temo che il signor Zimmerson sia più sagace di quanto tu voglia credere, Jonie.» Giorgiò, con ingenua galanteria, aprì la porta del taxi per la sua graziosa ragazza.
«Non è sagacia, è repressa gelosia.» Rispose prontamente Johanna, accavallano le gambe sul sedile sfondato del taxi, sistemandosi il vestito con i palmi morbidi delle mani.
«Fortuna che è contro ogni forma di violenza.» Ridacchiò Giorgio, afferrando il volto della giovane per darle un bacio scherzoso. «Dove andiamo, ragazzo?» Chiese il tassista, scrutandoli dallo specchietto.
«Al Metropolitan, signore. Magritte e gli altri surrealisti ci stanno aspettando.»

Si dice che l’artista sia un ricettacolo di emozioni che vengono da ogni luogo: dal cielo, dalla terra, da un pezzo di carta, da una forma di passaggio, da una tela di ragno. Così, mentre Johanna passava in rassegna l'inesorabile susseguirsi di opere, profonde come oceani oscuri e spaventosi come una caverna affacciata su una scogliera a strapiombo, si chiese quale fosse il Suo Luogo, dove abitasse il suo  inconscio creativo quando si ritrovava posseduta da una divinità che faceva emergere lo spirito santo dall'Inchiostro. Giorgio conversava con un tale, vestito come se fosse appena fuggito da un funerale, il suo funerale.
Un William Burroughs da mostre delle avanguardie al Metropolitan.
A Johanna piaceva sentire il ticchettio delle scarpe sul parquet, e provava una perversa soddisfazione quando i tirchi osservatori di dipinti che riuscivano solo a criticare si voltavano per rivolgerle un aspro sguardo di disappunto.

La ragazza si fermò di fronte ad un Picasso, ignorando l'altro giovane che stava contemplando la stessa opera. Giorgio pareva divertirsi assieme al becchino di esposizioni sul surrealismo, e si chiese fino a quale punto si sarebbe spinto con lui. Johanna aveva buon occhio, tigre del bengala predatrice di gazzelle e ingenui. Soddisfatta del proprio intuito, la fanciulla appena diciottenne, festeggiò il suo debutto in società di fronte al "Sogno" di Picasso, rimembrando una frase dell'artista - "Dio in realtà non è che un altro artista. Egli ha inventato la giraffa, l’elefante e il gatto. Non ha un vero stile: non fa altro che provare cose diverse."-

Si chiese come mai avesse inventato lei, sulla base di quale altra creatura mistica l'avesse plasmata.
Giorgio le sorrise, carnose labbra latine che risaltavano sui colori tenui della stanza, caliente pelle olivastra che rifletteva sul bianco accecante degli espositori. Molto attraente, italiano vigoroso, eppure estramamente irraggiungibile.
Solo lei se ne era accorta.

Spazio Autrice:
La maggior parte dei personaggi citati in questo racconto sono realmente esistiti, tuttavia ho deciso di cambiare i loro nomi perché avevo piacere a romanzare le loro storie.
Cosa ve ne pare?
Fatemi sapere!

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