Capitolo Due

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«Conosci Andy Wahrol?» Una voce irruppe nei padiglioni auricolari di Johanna, e per un istante le sembrò che fosse stata la ragazza del Picasso a parlare; surrealista corpo nudo avvolto da una coltre di passionali emozioni.
«Sei tu?» Rispose Johanna di rimando, delusa dal fatto che la voce appartenesse al ragazzo sulla sua sinistra. «No, è il tizio che sta facendo venire un' erezione al tuo fidanzato.» Il giovane distolse lo sguardo indagatore dal corpo splendidamente, utopicamente scombinato di Marie-Thérèse Walter, moglie del pittore spagnolo, e si voltò verso la fanciulla dai lunghi ricci ramati. «Ti aspetti che risponda?»
«Non sembri turbata dall'omosessualità del tuo fidanzato beatnik.» Il giovane lanciò un'altra occhiata in direzione di Giorgio e del presunto Andy Wahrol del quale Johanna non aveva mai sentito parlare. Chi era? Un allevatore di alci in Vermont? Un apicoltore californiano? Uno sceneggiatore di Hollywood che andava a letto con Rock Hudson? Uno dei personaggi di Kerouac, un Dean Moriarty attratto dagli uomini?

«Non è il mio ragazzo, e mai potrà esserlo.» Ridacchiò la fanciulla, sempre persa tra i pigmenti armoniosamente confusi di una delle opere più belle di Picasso.
«Vai spesso alle mostre?» Il ragazzo non sembrava passarsela granché bene. Una vecchia camicia di flanella a quadri, come quelle indossate dai lavoratori dei campi a Montgomery, infilata distrattamente nei jeans che un tempo dovevano essere molto più blu, e un paio di stivali consumati, dove la scamosciata sembrava esser passata attraverso un tritacarne.
«Quando non sono impegnata a organizzare loschi incontri in chiese abbandonate.» Johanna si allontanò dall'espositore, semplicemente per vedere come avrebbe reagito il misterioso giovanotto dalla voce nasale, un cowboy adolescente con un profondo e marcato accento del Midwest, approdato in una sala immacolata e luminosa, come se fosse stato sbattuto là dentro dopo una sbronza da forte emicrania. Nonostante ciò, sembrava molto istruito. «Non ho paura dei cospiratori, ho sventrato un rito del Ku Klus Klan nell'autunno del '43.» Il bandito la seguì fino alla stanza successiva, passando di fronte al bel Giorgio, italiano succulente, e fermandosi al cospetto del "Falso Specchio" di Magritte, pittore belga, insetto del surrealismo.

«Io so che genere di persona sei, sai?» Johanna sorrise, puntando i suoi incolmabili occhi ambrati in quelli blu opalescente del ragazzo. «Un adolescente disperato fuggito dal suo villaggio sperduto in una qualche località dimenticata da Dio, approdato a New York per cercare i suoi idoli beatnik, raccontando storie non sue, rubate da vecchi veterani di carri merci, per far colpo sulla povera gente che ci incontra.»
«Nessuno mi conosce meglio di te.»
«È come se mi fossi guardata in uno specchio.» Sospiró la fanciulla, lanciando un occhiata distante e malinconica al quadro del pittore europeo. Un grande occhio in cui l’iride è una finestra circolare su un cielo attraversato da nuvole bianche. La pupilla è un sole nero che domina la scena. Johanna, avvertendo la soffocante presenza del compagno di conversazione, si chiese: "L'iride è forse lo specchio del cielo che l’occhio vede? oppure tutto il dipinto è un grande occhio spalancato nel cielo?”

«È solo un punto di vista» Il bandito del Midwest sembrò leggerle nella mente, e dall'alto della sua posizione rispettabile conferitagli dagli stivali consumati, pronunciò la sua sentenza. «È solo un punto di vista, baby blue. Essere o apparire?»

Johanna avvertì qualcosa rompersi, dentro di sé. Un brivido corse lungo tutta la spina dorsale, fino a tuffarsi nel profondo della sua anima congelata. Avrebbe tanto voluto chiedere al giovane eroe del Midwest come avesse fatto a capirlo, ma in quel momento Giorgio la raggiunse e la condusse verso un'altra, intramontabile, terrificante stanza, e del bandito dei Grandi Laghi non rimase altro che la scia della sua cruda sentenza. Non riusciva a ricordare la frase di congedo, ammesso che ci fosse stata, l'unico ricordo che conservò del ragazzo proveniente dal Vicolo Del Desolazione, erano le pagliuzze bianche come le ali degli angeli affogate nelle pupille azzurro cielo. Non lo rivide per mesi, eppure Johanna non riuscì più a togliersi dalla mente, contorta ed esausta, le ultime parole udite dal giovane "Essere o apparire?".

Ethan Zimmerson era un uomo complessivamente soddisfatto della sua vita, consapevole delle sue scelte e non aveva mai accumulato un numero così alto di rimpianti da lasciare che questi affogassero la sua esistenza. Quando la moglie, megera aristocratica discendente da un antica famiglia di oligarchi dell'Alabama, crudeli proprietari terrieri, lo aveva cacciato da Montgomery minacciandolo di sottrargli la cosa più bella che Dio gli avesse concesso, l'angelo della concordia che gli aveva permesso di non odiarsi per aver accettato di sposare la ricca Scarlett Hester-Howell per salvare i poveri genitori dalla caduta in disgrazia.
Stava finendo di riordinare le carte di un caso, concernante l'arresto ingiustificato di un uomo afroamericano, quando Johanna rientrò in casa.
Gettò una rapida occhiata al camino, chiedendosi come mai fosse spento, e si ricordò svoltando dopo qualche istante che era maggio, un caldo afoso maggio newyorkese.
«Buonasera Jonie, hai fatto piangere qualcuno oggi?» Ethan scrutò la figlia da sopra degli occhiali tondi, da ebreo, poggiati sul naso arcuato.
«No, ma sono soltanto le sei e mezzo di sera, papà.» La fanciulla si chinò sulla scrivania del padre e gli lasciò un umido, affettuoso, caldo bacio sulla fronte lucida.
«Sei sempre certa di volerti trasferire? Io non avrei niente in contrario se tu volessi rimanere qui, con il tuo vecchio.» L'uomo abbandonò un alto plico di fogli giallognoli sulla scrivania e si diresse placidamente verso il camino, sul quale ripiano era poggiata una lettera, piccola e immacolata busta di vergine carta bianca.
«Vado alla Columbia, papà. So di essere giovane, ma devo rendermi indipendente. Ho risparmiato, mi sono messa da parte i compensi che mi hanno dato per scrivere sul giornale dell'università, e riuscirò a pagarmi due mesi d'affitto. Nei quali, mi cercherò un lavoro.» Johanna si lasciò cadere sul comodo divano Chesterfield, di un elegante beige che tanto faceva residenza scozzese nelle Highlands, e si versò dello sherry attingendo dalla borraccia del padre. Ethan non aveva niente in contrario, purché la figlia non esagerasse.
La preferiva sicura, istruita ed emancipata, piuttosto che frivola, ingioiellata e in attesa di un ricco pollo da spennare. Guardandola, vedeva una splendida creatura selvaggia, indomabile, una magnifica venere dagli occhi color ambra, e non un prototipo dell'aristocratica e crudele madre, schiavista repubblicana, che sarebbe svenuta vedendo la preziosa figlia indossare logori jeans e modeste camicette come una qualsiasi delle altre fiorenti ragazze che si vedevano zompettare allegre, prime donne emancipate degli anni sessanta, per i vicoli del Greenwich Village.
Ethan provava un perverso e sardonico senso di piacere sapendo che la moglie si sarebbe uccisa piuttosto che vedere la figlia allevata come una qualsiasi delle bestiole Yankees.

«Ebbene, pa'? Non avevi qualcosa da darmi?»
L'avvocato venne riportato alla realtà dalla profonda e incalzante voce della figlia, che lo fissava dalla sua comoda seduta sul divano imbottito, come il patriarca di una famiglia mafiosa, e aspettava impaziente.
«Ehm, si, è arrivata questa qualche giorno fa.»



Spazio Autrice:
Buonasera, cosa ve ne pare del capitolo?
Grazie per i voti ❤️

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