Together again

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Thor scese per la lunga scalinata dei sotterranei in silenzio, perso nei propri pensieri, facendo da guida al coniglio.

Era più che mai consapevole del mondo che lo circondava, forse per la prima vera volta in cinque anni, e proprio per questo motivo continuava cocciutamente a tenere la testa bassa: rammentava a se stesso che se l'avesse alzata, se avesse guardato anche solo per un istante una parete, una colonna, una cella, di per sé così anonime... se lo avesse fatto, quella parvenza di controllo che era miracolosamente riuscito ad accumulare sarebbe svanita senza più tornare.

Niente di tutto ciò che lo circondava esisteva più. Non per lui. Quello era solo un sogno ad occhi aperti, un ricordo che aveva ripreso vita, un dono, un mero dono che lui non aveva mai osato chiedere, perché sapeva di non essere abbastanza forte per rinunciarvi. Non più ormai.

Di quella stanza, quel palazzo, quel pianeta, quella vita non esisteva più niente. Tutto distrutto, tutto cenere, tutti morti: fantasmi, senza sapere di esserlo.

Ed era colpa sua.

E ora i suoi amici, o la vita o il destino, qualsiasi cosa fosse, lo rispedivano lì, per rammentargli ulteriormente i suoi sbagli e i suoi fallimenti.

Avevano intravisto due soldati in armatura lucente poco prima, e in entrambi i casi una voce crudele e spietata gli aveva sussurrato all'orecchio:

Guardalo. Tra poco di quell'uomo non resterà più niente: il suo corpo si trasformerà in cenere e svanirà, oppure vagherà per sempre nello spazio. E sarà colpa tua"

Thor conosceva quella voce. Era la propria.

Il dio del tuono scosse con vigore la testa, in un vano tentativo di scacciare quei cupi pensieri.

Doveva sforzarsi... doveva rimanere concentrato sulla missione. Aveva l'occasione di sistemare le cose, di riportare tutti indietro: non poteva rovinare tutto.

Non di nuovo. Non stavolta.

E allora si costrinse ad alzare lo sguardo, per controllare in quale ala delle prigioni si trovassero e quanto mancasse all'uscita.

Gli occhi scivolarono per un momento sulle celle vuote, distratti.

I suoi passi risuonavano ovattati sul freddo pavimento, lievi tonfi ne scandivano il ritmo.

Poi, il silenzio.

Perché una cella non era vuota.

Thor si bloccò. Non per volontà propria, ma perché semplicemente i suoi piedi si erano all'improvviso ancorati al terreno, pesanti come macigni, e l'ordine impartito dal cervello di continuare a camminare non fu che un'eco remota quasi inudibile.

No... quello... quello era decisamente troppo.

Ogni sua barriera di finto autocontrollo, ogni suo pilastro di buoni propositi che lo teneva dritto, in piedi, e gli impediva di crollare... tutto finì in mille pezzi, e di lui non rimasero che cocci rotti sparsi per terra.

<Thor, ti vuoi sbrigare?> sibilò Rocket, che intanto lo aveva superato e lo stava aspettando dall'altro lato del corridoio.

Ma Thor non diede segni di averlo sentito, lo sguardo fisso all'interno della cella, dove un giovane uomo stava pigramente lanciando in aria una piccola tazza, per poi riafferrarla subito dopo, la noia palese nel suo sguardo di smeraldo.

I suoi piedi agirono nuovamente contro la sua volontà, e Thor si avvicinò alla cella, senza sapere perché lo stesse facendo, perché volesse farsi del male.

Ma non aveva importanza in realtà: nella sua testa vi era solo una parola, solo un nome, ripetuto all'infinito senza mai perdere significato ma anzi diventando ogni volta più vero.

The sun will shine on us againDove le storie prendono vita. Scoprilo ora