Marco Sarti era il capo su cui si reggeva l'intero Carroccio, questo era il termine dato al suo partito dalla maggioranza dei media. Più che carroccio, l'avrei visto più come una carrucola che si reggeva a malapena su due ruote, forse una cariola che arrancava su una propaganda politica che non aveva mai avuto niente da offrire, ma tutto da togliere. La prima volta che lo vidi di persona fu ad una delle ultime consultazioni a cui venni invitato e, nonostante la mia bassa opinione su di lui, in quell'occasione ebbi quasi l'ardire di ricredermi. Mi sembrava addirittura gioviale, oserei dire, con quel furbo sorriso che compariva sul suo volto olivastro e inasprito dalla barba nera e grigia. La prima cosa che fece, appena mi vide, fu chiedere a Carlo Del Vecchio se fossi io il famoso professore venuto per occupare Palazzo Chigi: "Allora è lui, eh? Credevo fosse più vecchio." Le voci corrono veloci in quell'ambiente, talmente tanto che persino i giornali si lasciarono sfuggire qualche discrezione su di me. Pasquale mi aveva già avvertito di ciò: "d'ora in poi, la Stampa comincerà a tenerti sotto il proprio mirino; scaverà persino con la vanga nel tuo passato, pur di trovare qualcosa di scottante." Io, però, non mi preoccupavo, non in quel momento almeno. Ciò che avevo da nascondere rimaneva ben custodito nei meandri della mia mente e di sicuro non mi sarei fatto sfuggire nulla né alla stampa e né ai miei collaboratori. Ero molto più preoccupato per i miei cari, per mia figlia; volevo che tutti loro rimanessero lontani da quel mondo, che non venissero invischiati in quel sistema perverso e divoratore. Mio padre, quando venne a conoscenza di una mia possibile nomina, lo seppe dai giornali.
"Ma è vero ciò che dicono? Diventerai Presidente?" Me lo domandò per telefono, con il suo solito accento marcato dalla declinazione dialettale. Mio padre era un uomo istruito e aveva lavorato fino alla pensione nell'amministrazione comunale del mio Paese d'origine, ma non aveva mai viaggiato, non era mai andato oltre Roma e non conosceva altro tipo di lingua al difuori del dialetto. "Gianlù, non essere avventato, per l'amor del Cielo, tua madre sta piangendo da stamattina."
L'ironia della sorte volle che i miei genitori, piuttosto che essere felici per me e per l'opportunità a cui stavo andando incontro, fossero invece disperati. Comprendevo la loro preoccupazione, ma in quel caso non c'era più spazio per ripensamenti.
"Sei turbato?"
Si erano appena concluse le consultazioni di quella mattina, con qualche riserva e dubbio da parte di entrambi i partiti. Mi mossi verso il cortile di Montecitorio insieme agli altri rappresentanti e capigruppo che furono subito fermati dalla stampa per rispondere ad alcune domande. Io, fortunatamente, non fui notato e rimasi in disparte, affrancato solo dalla presenza di Giovanni Romanelli che si accese subito una sigaretta per stemperare la tensione. "È normale essere turbati."
"Mi preoccupa la strana direzione che sta prendendo questo accordo." Confessai. "Ci sono diversi punti in cui non abbiamo preso posizione e ciò mi lascia leggermente attonito."
"Parli della questione immigrazione?" Colse subito il mio disappunto. "Vedi, Gianluca, quella è una questione a loro molto cara e lo sai bene anche tu. Ci tengono particolarmente a tenerla in ballo anche perché hanno fondato un'intera campagna elettorale su di essa."
"Questo lo so." Chiarii subito. "Ma m'interessa sapere qual è la nostra posizione." Dissi, marcando volontariamente quel nostra, consapevole di essere stato ormai inglobato da quel movimento. Lui fece un profondo respiro, grattandosi la nuca coperta dai suoi capelli grigi e crespi. "Purtroppo parte del nostro elettorato su questa questione la pensa come loro, anzi, probabilmente gran parte di esso. Anni di estrema propaganda dell'odio e del terrore hanno portato ad un incredibile accrescimento del razzismo, e questo è un dato di fatto. Ciò significa che non avanzeremo ulteriori proposte, ma ci terremo in linea con quello che vogliono loro."
"Stai scherzando, vero?!" Sentii il mio corpo irrigidirsi completamente a quelle parole, non potevo accettare una risposta simile.
"Noi abbiamo altri obiettivi, Gianluca, altre priorità. Dobbiamo occuparci dei lavoratori."
"Ma non possiamo dare spazio a delle politiche razziste, non posso accettarlo!"
"Noi agiremo in altro modo." Fu la risposta di Giovanni. "Avvieremo un accordo con l'Europa e questo sarà il tuo compito. Non possiamo essere schizzinosi in questo momento, non quando la loro proposta economica è da suicidio."
Sapevo a cosa si riferisse e rabbrividii al solo pensiero. Marco Sarti ci teneva praticamente per le palle e sapeva perfettamente a che gioco stavamo giocando. La linea economica del suo partito era di stampo neoliberista, erano riusciti addirittura a portare alla luce una vecchia legge finanziaria proveniente dagli anni '80. "È lì che dovremmo concentrare le nostre energie. Se una legge come la Flat Tax viene registrata in Gazzetta Ufficiale, ogni sforzo compiuto sarà vano."
"E come credete di agire?" Domandai, guardandolo dritto negli occhi. Al di fuori del cortile, nel frattempo, gli schiamazzi dei giornalisti avevano già lasciato spazio al quotidiano brusio del luogo.
"Non lo so ancora, ma su quella agiremo in corso d'opera, non possiamo fare nient'altro."
Scoprii, qualche giorno più tardi, che i giornalisti avevano davvero indagato su di me. Passarono in rassegna il mio intero curriculum, analizzando voce dopo voce quello che avevo fatto nella mia intera vita, dai miei studi accademici fino alle azioni compiute in ambito professionale. Uscirono fuori alcune incongruenze con dei seminari compiuti all'estero, non registrati nei database universitari. Mi accusarono di essere un bugiardo, un millantatore; ero già sotto il mirino della macchina del fango e non avevo ancora giurato sulla Costituzione. Cercai di non pensarci, di dare un po' di pace ai miei sensi, ma solo l'idea di essere preso per un disonesto incapace mi mandava in bestia.
"Nel giro di un paio di settimane avranno già dimenticato, vedrai." Mi disse Ruocco, per tranquillizzarmi, mentre accostava l'ennesima cravatta blu al mio volto pallido. "Questo colore ti dona incredibilmente."
Eravamo in un atelier in Via Condotti, una delle vie più rinomate per lo shopping di Roma, con l'intenzione di comprare diversi completi che mi sarebbero serviti per gli incontri ufficiali futuri. Avevo già misurato tre giacche, due pantaloni e un numero indecifrabile di camice; e mentre io già smaniavo di tornare a casa o almeno da mia figlia, Ruocco sembrava completamente a proprio agio in quell'ambiente, a sbizzarrirsi tra cravatte e altri capi d'alta moda.
"Posso saper perché dovrei rifarmi il guardaroba?"
"Perché per essere un presidente, bisogna avere l'aspetto di un presidente, Gianluca." Mi rispose, aggiustandomi il ciuffo sulla fronte. "E per ora sei soltanto un professore. Ti giuro che un giorno brucerò tutti quei completi marroni che hai nell'armadio."
"Sono di alta sartoria, Pasquale. Ci ho speso un sacco di soldi."
Lui mi guardò, alzando entrambe le sopracciglia, già dalla sua espressione capii cosa stava per dirmi. "Soldi spesi malissimo. Da ora i tuoi colori saranno il blu, il grigio e il nero." Mi disse. "So che hai una strana passione per le cravatte colorate, su quelle possiamo venirci incontro... ma non sperarci troppo."
Non avevo fatto neanche un giorno di governo e già ero stufo di quella vita. Bramavo terribilmente di essere lasciato in pace, di ritornare a vivere come avevo sempre fatto, di essere un comune professore e nient'altro. Cosa stavo facendo? Mi chiedevo ogni giorno, ogni notte, e l'insonnia era ritornata ad essere di nuovo la mia temibile compagna.
"Andrai alla grande." Mi venne incontro l'altro uomo, che probabilmente aveva notato il mio visibile disagio. "Sarà dura, ma andrai bene, ne sono sicuro." In quel momento volli credergli. "Ora dovrai pensare soltanto al tuo incontro con il Presidente Maiolani di giovedì."
"Lo so." Risposi, guardando la mia figura riflessa nello specchio, vestita in un elegante completo color blu notte. Cominciai a capire la parole di Pasquale e in quel momento mi vidi davvero come il Presidente del Consiglio. Mi sentii degno di quell'incarico.
"Che macchina possiedi?" Mi domandò, poi, improvvisamente.
"Una Jaguar XJ6" Risposi, prontamente.
Lui scosse appena la testa e si passò un fazzoletto sulla fronte imperlata di sudore. "Allora è meglio che ci vai in taxi dal Presidente della Repubblica. Devi dare l'idea di essere uno del popolo."
STAI LEGGENDO
Tutte le volte che ho visto il sole nascere
General FictionTutti i Presidenti del mondo hanno bisogno di assistenti, segretari e di un forte team alle spalle per essere considerati degni di quel ruolo. Io, invece, avevo semplicemente bisogno di un'analista. Molti personaggi sono ispirati a persone reali, co...