Capitolo 1: Città dormiente.

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La città dormiva ai miei piedi, avvolta dall'oscurità. Poche luci ancora erano accese nei palazzi più vicini. Mi trovavo su una collina, da cui riuscivo a scorgere gran parte di New York. Quest'ultima continuava a vivere giorno per giorno ignorando i pericoli che lei stessa ospitava. Era un paradosso ma ero certa che la città fosse al sicuro più nelle tenebre che alla luce del sole, secondo me molto sopravvalutata. Muoversi di notte era molto più semplice, veloce e pratico. Non c'erano occhi indiscreti e i quartieri dove i Morder potessero mietere vittime si concentravano nella parte dimenticata e povera, facile da localizzare quindi.
Quella notte però c'era una calma irreale. Stava accadendo qualcosa di grosso, me lo sentivo e il mio istinto non sbagliava spesso. Quello che più odiavo era il senso di impotenza che provavo in quel momento. Avevo voglia di andare a caccia, di uccidere e vedere negli occhi dei miei nemici la paura e la rassegnazione il momento prima in cui la vita, inietta e schifosa di cui si erano appropriati indebitamente, lasciava il loro corpo. Solo così si poteva ristabilire l'ordine preciso delle cose.
Accanto a me, seduto come una sfinge, Keiden si mosse e si voltò a fissarmi. Alzai una mano e gli accarezzai il pelo dietro al collo, era morbido e folto. I suoi occhi cambiarono improvvisamente colore, diventando di un nero profondo, totale. Anche lui percepiva che qualcosa non andava. Di certo quella variazione di colore non era una dote tipica del lupo cecoslovacco per cui lo spacciavo con gli umani. Keiden era un lupo a tutti gli effetti, una creatura antica venuta con me dagli inferi. Era la mia guida ed io ero la sua, ci completavamo come squadra e ci capivamo al volo, al solo guardarci. Inoltre lui aveva un ottimo fiuto per i Mordor, le creature a cui davo la caccia e che uccidevo, quasi sempre senza pietà. Ero un soldato in una guerra silenziosa che si svolgeva ogni notte a New York. I Mordor erano demoni, traditori. Avevano rinnegato la loro stessa natura ed erano fuggiti dall'inferno per sventare all'ira del diavolo. Avevano invaso la città da una sette anni e ogni notte mietevano vittime umane e non. Viveva tra loro infatti un altro tipo di popolo, silenzioso e cauto quanto me e i miei fratelli, quello dei Guardiani. Questi ultimi avevano un aspetto del tutto simile al resto della gente se non fosse stato per una scintilla dentro di loro. Un'inezia. Il resto di una luce proveniente da un'altra realtà che li rendeva forti e consapevoli dell'esistenza delle creature oscure. Molti umani, se avessero saputo della loro esistenza, li avrebbero chiamati angeli ma non lo erano poiché parte di questi ultimi era stata distrutta dal clima del pianeta all'inizio dei tempi, per questo avevano finito di interessarsi agli umani e li avevano probabilmente scordati completamente. I Guardiani discendevano dai figli che questi primi angeli avevano avuto con donne umane ma non avveno più niente di celestiale o di caritatevole. Durante tutta la storia si erano tramandati di generazione in generazione la loro missione senza poterla portare a termine poiché non c'era un vero nemico da combattere. La loro essenza più profonda si era finalmente risvegliata con l'arrivo dei Mordor, il male che aveva invaso la Terra. Erano guerrieri quanto me e i miei simili ma, mentre loro combattevano per proteggere gli umani io combattevo per uccidere i Mordor. Il nostro fine poteva sembrare lo stesso ma partivamo da posizioni opposte. A me degli umani importava poco mentre i Guardiani  li proteggevano a mo' di ringraziamento, poiché li avevano accolti in principio tra loro come loro simili. Gli umani odierni questo non potevano saperlo, però, perché la loro memoria era molto più debole di quella delle altre stirpi.
Mi alzai rassegnata a non affrontare nessun combattimento quella notte e mi incamminai con Keiden affianco verso l'uscita del parco di cui faceva parte la collina. In città non girava anima viva, incontrai solo un paio di drogati strafatti e una prostituta che in un angolo contava i soldi dell'ultima scopata. Non alzarono nemmeno gli occhi al nostro passaggio, quella parte malfamata di New York era un covo di umanità dolente che aveva il solo scopo di vivere alla giornata. Raggiunsi la fermata della metropolitana più vicina. Prima di entrare dovetti infilare al mio amico peloso un collare attaccato ad un guinzaglio, era sempre meglio non dare nell'occhio. Dovetti aspettare solo un paio di minuti prima di prendere il primo treno in direzione Manhattan. Mi sedetti in un posto in un angolo, fissando il pavimento e tirandomi su il cappuccio della felpa nera che indossavo. Dovetti chiudere gli occhi non appena le porte della vettura si chiusero, per sopportare il caos che invadeva la mia mente. Era uno strazio ogni volta ma ogni volta riuscivo a superarlo. Odiavo la metro per quel motivo. La mia mente si riempiva di parole e di urla. Grida di terrore e di sofferenza. Erano gli incubi delle persone che si trovavano a viaggiare con me. Colpivano la mia testa come lame taglienti, avrei potuto distinguere ogni voce ma avevo imparato a mie spese che il trambusto indistinguibile era meglio di un unico suono alla volta. Non avevo bisogno di guardare la gente per sapere a chi appartenesse un incubo o una paura che leggevo nella mia mente. Vedevo ogni persona nel mio cervello. Mio padre lo aveva definito un dono inimmaginabile ma per lo più io lo consideravo una condanna e una maledizione. Non ero mai veramente sola. L'unica cosa positiva era che con i Mordor  questa mia qualità funzionava alla grande e loro per me non avevano segreti. Sapevo esattamente come ucciderli nel peggiore dei modi. Ero spietata e senza scrupoli e questo mi rendeva un'ottima cacciatrice di demoni.
Il mio supplizio finì con l'arrivo nella stazione prescelta dove corsi fuori dalla vettura in un secondo, solo fuori potei riprendere a ragionare. Camminai con Keiden qualche isolato raggiungendo l'entrata posteriore di un enorme grattacelo. Mi tolsi il cappuccio e raggiunsi l'ascensore nell'ala opposta. Una volta salita su di esso spinsi il tasto del sessantatreesimo piano, l'ultimo. L'intero palazzo e l'intero mondo credeva che quel piano fosse adibito ad uffici privati della Golden Ward Corporation, un'azienda di fama internazionale che si occupava di telecomunicazioni. In effetti non era del tutto inesatto visto che quella era l'azienda di Percival Ward, che possedeva l'intero edificio, usata come copertura da me e dagli altri. Percival era mio fratello, il maggiore tra noi.

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