Un inizio non proprio promettente

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Quando ripresi i sensi, la macchina era avvolta dalle fiamme; le ruote erano avviluppate nella cortina di fuoco, come gran parte della fiancata sinistra. La vettura era stata catapultata sul ciglio della strada, quasi investendo il gabbiotto della sorveglianza.

Era finita all’interno di un piccolo fosso che aveva in qualche modo ammortizzato il volo prodotto dall’esplosione.

La maggior parte del metallo si stava deformando per l’elevata temperatura, mentre il vetro era stato frantumato. Grazie al cielo le fiamme non avevano ancora attaccato il motore e il serbatoio della benzina, ma mancava poco.

Per mia fortuna, la macchina era tra le più robuste in commercio e quindi i danni provocati erano minimi rispetto all’entità dell’esplosione. Cercai di uscire con la massima velocità permessa dalla macchina. La gamba mi era quasi stata tranciata dalla portiera, che si era divelta per l’onda d’urto.

Non so come, ma ero intatto. Un paio di botte, qualche livido e taglio qua e la, ma tutto intero. Un qualche Dio mi aveva salvato da una morte quasi certa.

Una volta uscito, mi ritrovai sul letto del fosso, ora vuoto, e strisciai verso il limitare del bosco, distante non più di due metri. Infatti, avevo il presentimento che qualcuno fosse venuto a controllare che il lavoro fosse concluso.

E, giustamente, qualcuno si stava dirigendo verso il mio mezzo. Borbottava in un inglese rozzo riguardo alla genialata del capo della sicurezza di posizionare dei panetti di C4 al centro della strada in caso si fossero presentati ospiti poco desiderati.

Ecco cos’era stato. Fottuto genio! Qualcuno aveva azionato dalla villa il radiocomando che attivava le cariche. La mia macchina, però, posizionata a lato della strada, non era stata colpita in pieno dall’esplosivo, che altrimenti avrebbe squarciato in due il mezzo, uccidendomi sul colpo.

L’uomo era un americano, alto, quasi sul metro e novanta, un armadio con i piedi. Camminava con passo sicuro, quasi mettendo in mostra la sua muscolatura, attentamente forgiata dall’utilizzo spinto di pesi. I capelli, di un nero corvino, a spazzola, quasi coperti da una bandana nera, contrastavano con la carnagione pallida, quasi lunare, dalla lampante tonalità olivastra. Gli occhi, scintillanti di ferocia pura, simili a due pupille di pantera, schizzavano qua e la in modo repentino, scansionando l’area. Uniti alla mascella digrignata, conferivano un aspetto poco rassicurante all’uomo. Portava una divisa dell’esercito americano, kaki. I distintivi erano stati strappati via con una violenza tale da aver lacerato il tessuto intorno. Ai piedi calzava degli anfibi e indossava un giubbotto antiproiettile. Il fucile, che da lontano sembrava un vecchio AK-47 sovietico, era a tracolla e insieme a lui, nelle apposite tasche, viaggiavano sei granate, poco rassicuranti, accompagnate da tre ulteriori caricatori. Nella mano sinistra impugnava una Colt, mentre il coltello da combattimento era sistemato nell’apposita fondina.

Un brivido percorse interamente la mia spina dorsale; la mia mente tornò indietro alla spiaggia di Coronado, San Diego, nella sede dello SPECWARCOM (Special Warfare Command), una delle due basi di addestramento delle forze d’elite degli USA. Su quel tratto di sabbia, vengono forgiate le menti e i corpi delle punte di diamante dell’esercito degli Stati Uniti d’America attraverso il BUD (Basic Underwater Demolition) un addestramento che solo in pochi riescono a superare. Là i soldati vengono portati al limite delle loro possibilità, insultati come non mai, sottoposti a forzi estremi per verificare la loro tempra, la loro resistenza. Così vengono plasmati i componenti dei Team SEALS, che operano dove nessun altro riesce ad arrivare, oltre le linee del nemico, silenziosi e letali. Un numero mi restava impresso in mente, BUD 160, tre cifre che simboleggiavano il mio numero di corso, un fazzoletto di cemento su una distesa di fine sabbia bianca californiana, dove un ufficiale aveva appuntato sul petto il tridente dei SEALS. Quel tridente tanto sudato, ma alla fine meritato solo dai migliori. Là, davanti all’ufficiale, avevo compiuto il giuramento SEAL:

        “Il mio tridente da SEAL mi è stato consegnato da coloro che mi hanno preceduto. Incarna la fiducia di chi ho giurato di proteggere. Presto servizio umilmente quale guardiano dei miei concittadini americani, proteggerò sempre quanti non sono in grado di difendere loro stessi. Devo meritarmi il mio Tridente ogni giorno”.

E finalmente capii chi avevo davanti. 

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