𝟖

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"Solo i più forti possono rimanere in campo."

Me lo ripeteva spesso mia madre, quando ero distesa su un letto d'ospedale priva di forze.
E col passare del tempo tutto sembrò peggiorare, le mie condizioni di salute e la decisiva frattura tra mamma e papà. Sorridevano alla luce del sole, si odiavano a morte sotto le coperte.
Più pensavo di andare avanti e più, a dire il vero, mi allontanavo dalla meta.
Dal sogno di un'adolescenza.
Dalla nazionale.
Dal successo che da piccola sognavo, mentre stringevo il pallone tra le mani, promettendogli di non lasciarlo mai e poi mai, a costo della vita.

Io forte?
Pensai.

Come poteva una ragazza fatta di carne ed ossa - forse meno carne che ossa - essere forte?
E poi, soprattutto, che significato aveva quell'aggettivo?
Che voleva dire?

Quella fu l'ultima partita del giorno, e, forse, lo sarebbe stata anche della mia vita.
Ma che importanza avrebbe avuto?
Illudermi mi avrebbe solamente ferita.
Ed io ero già piena di ferite del passato che bruciavano ancora.
Ma nonostante ciò, il mio cuore non ne voleva sapere di dirle addio, non di nuovo, non a lei che era capace di curare tutto. Non era pronto e non lo sarebbe mai stato. E la mente iniziò a pulsare e a non voler star buona.
Giocare a pallavolo era tutto quello di cui avevo bisogno.

I miei occhi divennero lucidi e pesanti, la testa iniziò a roteare su se stessa e, per un secondo, le gambe cedettero. Sentii prontamente delle braccia afferrarmi al volo per impedirmi di cadere.

"Ecco la persona forte che sono!" Mi presi in giro da sola, tra me e me, accennando un sorriso affranto sulle labbra.

Tooru non mi sentì.

"Tutto bene Bek? Ti senti male?" Mi chiese preoccupato.

"Sto bene Oikawa." Gli risposi freddamente, staccandomi da lui.

Il castano mi fissò stranito, sospettoso che ci fosse qualcosa sotto.
Di più profondo.
Di più intimo.

"Sicura?" Mi domandò sotto voce.

"H-Ho bisogno di stare da sola." Mi voltai e corsi via.

Scappai lontano da quell'angolo di corridoio, diventato, a dir poco, asfissiante, opprimente e gelidamente intollerabile.
Mi rinchiusi in bagno, stranamente vuoto, e posai la mano sul petto che respirava affannosamente. Pensavo che così facendo, il mio respiro si sarebbe placato.
Ma mi sbagliavo di grosso.
Guardavo il mio riflesso allo specchio.
Sapevo già cosa stavo per fare.
Ero solo delusa di me stessa.
Perché, con quello che sarebbe successo di lì a poco, sarei tornata al punto di partenza.

Entrai nella toilette, chiudendola a chiave e mi inginocchiai singhiozzando di fronte il gabinetto, incurante dell'igiene e della pulizia del posto a me circostante.
Volevo vomitare tutto il pranzo di quella mattina.

Se non fossi mai stata ricoverata, ora sarei in nazionale. Se non fossi mai stata anoressica, la mia famiglia sarebbe qui con me. Ho distrutto tutto. Ho allontanato tutti.

Ecco cosa pensavo mentre rimettevo anche l'anima putrida che avevo dentro di me.
Si, mi sentivo una fallita.

Toc Toc

"Becka." Una voce calda e accogliente mi riportò alla realtà.

Cercai di ricompormi subito.

"Becka sono io."

E mentre lui mi aspettava fuori, io piangevo seduta a terra con la schiena appoggiata alla porta, cercando di non emettere alcun singhiozzo per evitare di farmi scoprire.
Chi mai avrebbe potuto capire quel gesto estremo?

Mi schiarii la voce.
"Tooru, questo è il bagno delle donne. Va tutto bene. Tu vai pure dagli altri. Io ti raggiungo tra poco."

"Non vado da nessuna parte se so che stai male."

𝐂𝐚𝐫𝐧𝐞 𝐲 𝐇𝐮𝐞𝐬𝐨 | 𝐋𝐚 𝐬𝐭𝐨𝐫𝐢𝐚 𝐝𝐢 𝐁𝐞𝐜𝐤𝐚 𝐞 𝐓𝐨𝐨𝐫𝐮 |Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora