Solo un figlio

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 «Ciao mamma».

Entro nella stanza e mia madre è lì, seduta sulla sua carrozzina, col viso rivolto verso la finestra. Una striscia di sole le illumina la fronte, sfiorandole gli occhi, mentre guarda fuori. Non c’è un gran panorama, siamo al primo piano e la finestra si affaccia sulla strada. Mi sporgo anch’io e vedo quello che vede lei: qualche auto, un signore che sta portando a spasso il cane, tre ragazzini che corrono sul marciapiede e alcune persone che, in piedi alla fermata, scrutano la strada per vedere se l’autobus che aspettano da troppo tempo stia finalmente per arrivare.

Scene comuni di tutti i giorni, persino noiose. Ma forse tutte queste cose che a me sembrano insignificanti, per lei rappresentano qualcosa di diverso: una libertà che non ha più, e della quale comunque non saprebbe che fare. Oppure, chissà, forse attraverso quella finestra, in quelle scene di vita ordinaria lei vede solo la sua città. Non quella di oggi, nella quale vivo io, ma quella del passato, nella quale camminava quando era ancora in grado di farlo e nella quale pensava, lavorava, parlava, amava. Quella città che ormai non esiste più, se non nei suoi ricordi sempre più confusi. Ricordi che, a poco a poco, stanno scivolando via, senza che ci sia la minima possibilità di recuperarli. Forse è per questo motivo che passa tanto tempo a quella finestra: per fissare nella mente delle immagini che riempiano quei vuoti sempre più grandi. Per dare ancora un significato alle parole, prima che siano solo un insieme di lettere accostate le une alle altre, senza senso.

È un anno ormai che mia madre è ricoverata qui. Non sarà un posto di lusso ma ho la sensazione che la trattino bene. Con dignità, perlomeno. E non è poco, di questi tempi. Come lei ce ne sono altri. Alcuni più vecchi, altri più giovani. Alcuni tranquilli, altri potenzialmente pericolosi, confinati nei piani superiori. Della loro esistenza, al piano di mia madre non c’è traccia, se non per qualche urlo che ogni tanto filtra, quando gli inservienti aprono o chiudono le porte.

«Ciao mamma» ripeto, appoggiandole una mano sulla spalla e chinandomi per darle un bacio sulla fronte. Lei gira la testa verso di me e all’inizio penso che non mi riconosca. Finirà così, prima o poi, i medici me l’hanno detto appena l’ho portata qui. Mi hanno avvertito di prepararmi, che sarà l’inevitabile decorso della malattia, ma io non ce la faccio ad abituarmi al fatto che la donna che mi ha messo al mondo un giorno non saprà più chi sono. Mi pare impossibile. Forse i suoi occhi e il suo cervello non mi riconosceranno più, ma il cuore? No. Credo che lei, in qualche modo, nel profondo saprà sempre.

«Oggi quattro uccellini hanno fatto il nido qui» mi dice, alzando l’indice della mano destra verso un punto imprecisato tra il soffitto e il cassone della tapparella.

«Bene, mamma, bene» le rispondo distratto, mentre giro la carrozzina e inizio a spingerla. Ormai poco di quello che dice ha realmente senso. Chissà se è poi davvero quello che vorrebbe dire, oppure pensa cose che poi escono dalla bocca con tutt’altre parole.

«Dove stiamo andando?»

«In giardino» le rispondo. «Ti va di andare un po’ in giardino, all’aria aperta?»

«Sì, ma non molto, che tra poco viene buio. E lo sai che quando viene buio bisogna rientrare, che poi fa freddo» mi dice allora con quel tono tra il severo e il preoccupato che conosco fin troppo bene.

«Certo mamma, lo so» la tranquillizzo, e penso che mi mancano tanto quei giorni in cui questa frase aveva davvero un significato.

Quando arriviamo in giardino cerco una sedia e mi sistemo davanti a lei. La guardo: è ancora bella, nonostante tutto. Per me lo sarà sempre. Non si dice forse che la mamma è il primo amore di ogni uomo? Forse è l’unico davvero incondizionato.

Anche lei mi guarda, e mi sembra che solo ora mi abbia davvero riconosciuto.

«Dov’è Marta?» mi domanda preoccupata, guardandosi attorno.

«Marta purtroppo non è potuta venire. Doveva accompagnare Luca alla partita di calcio. È bravo, sai? L’altra settimana ha fatto un provino con l’Inter, l’hanno messo subito in squadra con quelli più grandi. Sono un po’ preoccupato a dire il vero, perché ho idea che gli allenamenti saranno molto più intensi adesso, ma lui è felicissimo, dovresti vederlo. Anzi, mi ha detto di salutarti tanto e che presto verrà a trovarti».

Il viso di mia madre si apre in un sorriso bellissimo. Poi però il cielo azzurro dei suoi occhi si rannuvola un po’.

«Ma voi state bene? Vi volete ancora bene, vero? Mi raccomando, non litigate» si preoccupa. Allora le prendo la mano e la rassicuro.

«Ma no, che dici? Io e Marta stiamo benissimo. La settimana prossima verrà anche lei, promesso».

«E il lavoro? Come va il lavoro?» mi incalza.

«Il lavoro va benissimo, mamma. Giusto ieri abbiamo vinto una causa importantissima. Credo che mi daranno un aumento, e forse mi faranno diventare socio dello studio. Sei contenta? Era quello che tu e papà sognavate: un avvocato in famiglia. E ce l’ho fatta, grazie a voi e a tutti i sacrifici che avete fatto per me».

Allungo una mano per carezzarle la guancia. In fondo mi basta poco, quando vengo qui, per essere un po’ più felice, nonostante tutto. Mi basta vedere mia madre sorridere. Ormai non le rimane molto per cui vivere. I suoi giorni sono tutti uguali, per lei non esiste quasi più il concetto di tempo, di ieri, di domani. Di passato e futuro. L’unico appiglio con la realtà sono io. Ma nonostante anche quello stia lentamente scivolando via, lo vedo che cerca con tutte le sue forze di aggrapparvisi. E io non posso deluderla.

Per questo ogni volta che vengo qui mi invento una storia nuova. Oggi sono un avvocato con una bella moglie e un figlio con un futuro da calciatore. La settimana scorsa ero un ingegnere che aveva appena terminato di progettare un ponte in Malesia. Quella ancora prima, un chirurgo specializzato in operazioni a cuore aperto.

L’unica costante di tutto è Marta. Ogni volta lei mi chiede di Marta.

Io, però, Marta non so chi sia. Forse è la moglie che lei ha sempre immaginato per me. Non nascondo che a volte, mentre racconto particolari, esperienze, resoconti di vita mai vissuta, una parte di me desideri che tutto ciò sia avvenuto davvero.

In quest’ultimo anno ho inventato tante storie, tutte ogni volta diverse. Su di me, su quello che sono, su quello che faccio, sulla famiglia che in realtà non ho mai avuto. L’ho fatto per due motivi. Per mia madre, certo, perché vedere il suo viso illuminato da un sorriso è l’unica cosa che riesce ancora a scaldarmi il cuore. E poi per me stesso. Per fuggire, anche solo per pochi minuti alla settimana, dalla mia vera vita.

Molte volte ho pensato di raccontarle la verità. Tanto, dopo pochi minuti se ne sarebbe dimenticata e avrebbe ripreso a chiedermi di Marta, del lavoro, dei bambini. Ma non ce l’ho mai fatta.

Non ce l’ho fatta a dirle che suo figlio è diventato un killer professionista che per vivere uccide le persone. Che gli piace farlo, in fondo, perché si guadagnano tanti soldi. Che è con quei soldi, sporchi del sangue di perfetti sconosciuti, che pago il suo soggiorno in questo ospedale, dove possono prendersi cura di lei come io non avrei mai potuto fare.

Qui, almeno qui, posso dimenticarmi per un attimo di essere un mostro.

E tornare a essere solo un figlio.

Punto di non ritorno (estratto)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora