Era un sabato mattina come gli altri lì a Londra ed Helen stava seduta sulla sua solita panchina del parco di Cartwright Gardens, immersa nei suoi pensieri, resa intenzionalmente invisibile dall'ombra di una rigogliosa quercia. Era sempre stata una ragazza silenziosa e timida, che non amava essere oggetto di attenzioni indesiderate, ma come a farsi beffe della sua naturale ritrosia, nella sua università era conosciuta da tutti per il suo fascino: era snella con una silhouette slanciata e simmetrica, aveva i capelli di un colore nero pesto e degli occhi caramellati profondi e magnetici. Però, Helen, a conferma del suo modesto carattere, odiava la sua eccessiva bellezza, alcune volte, difatti, desiderava essere una semplice ragazza, persino sgradevole se fosse stato utile a togliersi di torno le irritanti attenzioni che le venivano continuamente rivolte.
Sussultò spaventata e i suoi pensieri si interruppero bruscamente quando sentì la voce di Carol giungerle da dietro le spalle: «Oh Helen, ma ci senti?» pronunciò spazientita.
«Si si» rispose sbrigativa Helen mentre cercava di connettersi con la realtà e di distendere i nervi che si erano precedentemente tesi per lo spavento.
«Ti ho chiamata più volte» insistette Carol, ma vedendo l'espressione spaesata di Helen, fece finta di nulla e continuò: «da quant'è che mi stai aspettando?».
«Solo da una decina di minuti, stai tranquilla» rispose, invitandola a sedersi accanto a lei.
«Dieci minuti? Ma com'è possibile, io sono in anticipo di un bel po', come diavolo fai a fare tutto così in fretta!» domandò retoricamente lei, stupìta.
«Lo sai bene il motivo per cui sono perennemente in anticipo; al di là del fatto che non perdo tempo nei cosmetici, la mattina, al contrario di qualcuno qui» disse Helen leggermente infastidita dal commento poco delicato dell'amica, la quale sapeva perfettamente come stessero le cose.
Non aveva ancora digerito il fatto che la madre, Sophia, le avesse sempre tenuta nascosta la fuga del padre, avvenuta ancor prima che lei nascesse; ormai erano passati cinque anni da quando lo aveva scoperto, e da quando aveva realizzato che Oliver non era il suo padre biologico. Durante questi anni si era parecchio distaccata dalla sua famiglia, sostava in casa solo per mangiare e dormire, per questa ragione arrivava sempre prima degli altri agli appuntamenti.
«Si si, vabbè, comunque, sei riuscita a capire la lezione di ieri? Quella su Edward B. Taylor e Clifford Geertz?» chiese dubbiosa.
«Beh, si, ho colto i punti essenziali del discorso della prof, tu a che ti riferisci nello specifico?».
«Io parlo dell'ultima parte che abbiamo affrontato in classe, il trattato di Geertz sul manifesto dell'antropologia interpretativa» le spiegò storcendo il naso per il disgusto.
Helen rise nel vedere la sua espressione, ma non poté darle torto: «Oh cacchio si, quella parte è complessa, è vero, però dovrei avere gli appunti nello zaino se ti servono».
«Magari! Sei la mia salvatrice Helen, mi stavo già per disperare, perché ho provato a leggere quella parte dal libro, ma ci ho capito ancora di meno, se possibile» le raccontò scocciata, ma sollevata allo stesso tempo per la fortuna di aver rimediato gli appunti.
«Io ancora non l'ho consultato il libro, ma non faccio fatica a crederti, comunque sia i miei appunti dovrebbero essere abbastanza comprensibili...» disse mentre cercava il quaderno nello zaino.
«Ecco, tieni» Helen le passò il quaderno richiesto, aperto alla pagina giusta, quella con la spiegazione del manifesto dell'antropologia interpretativa.
Carol si posò il quaderno sulle gambe ed estrasse il suo cellulare dalla tasca posteriore degli aderenti jeans che indossava, per poi aprire l'applicazione della fotocamera e scattare le foto alle pagine che le servivano.
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La città eterna e l'anatema del tempo
FantasyLa realtà non è una sola. E i tre protagonisti Dave, Helen e Carol lo scopriranno a loro spese.