Ripiegai per l'ennesima volta una maglia che era stata indossata da almeno una ventina di persone nel corso di un paio d'ore. Sembrava impossibile come la gente si accanisse non appena vedeva una scritta rossa e bianca di sconto.
       Eppure nessuno la voleva comprare quella maglia e chi poteva dar loro torto? Un quadrato di cotone scadente dalla scritta inutile di un grigio così chiaro che si confondeva con il bianco e uno scollo a barchetta con una manica troppo corta.
Chi mai avrebbe indossato una cosa del genere? L'avrei usata tutt'al più come straccio per le pulizie.
       Non vedevo l'ora di uscire da quel dannato negozio. Controllavo in continuazione l'orologio al bancone sperando segnasse mezzogiorno.
La mia mente andava in continuazione a Candice e a come il nostro rapporto si stava raffreddando; eppure lei mi amava, ne ero sicuro, e io sentivo di volerle davvero bene. Ma la amavo abbastanza? Cos'è che stava andando storto?
       I miei pensieri furono interrotti da una signora con una ridicola parrucca nera, che mi chiese di quale taglia fosse la maglia che avevo appena piegato.
Proprio quella maglia, pensai celando l'espressione attonita della mia aggrottata dietro un gran sorriso.
       Biascicai qualche parola mostrandole la maglia, che era una minuscola taglia unica. Con l'italiano avevo ancora qualche difficoltà, ma dopotutto ero in Italia solo da un anno e mezzo. Candice però se la cavava bene.
       La signora mi strappò di mano la maglia con uno sguardo spazientito. Che avevo detto o fatto di strano? Lasciai ricadere le braccia calando anche la testa, sentendomi fiaccato da quel lavoro che non mi dava alcuna soddisfazione.
       Mi tornò in mente la mia amnesia, che persisteva nonostante gli anni trascorsi. Chissà cos'ero stato prima dell'incidente, mi chiesi sollevando lo sguardo sullo specchio a figura intera accanto a me. Avevo un bel lavoro? Una famiglia? Degli amici?
Nessuno però mi aveva cercato. Nessuno aveva saputo darmi delle risposte.
Quel maledetto incidente aveva ucciso la maggior parte di me.

*

Mangiai il mio panino seduto su una panchina diversa quel giorno. Sporca e rovinata uguale, ma con la vista sulla strada invece che sul parco.
       La panchina dove sedevo di solito era occupata da una coppietta di adolescenti, intenti a sbaciucchiarsi senza il minimo pudore. Lei stava sopra le ginocchia di lui, in una posizione alquanto scandalizzante, senza contare i suoi movimenti ondeggianti avanti e indietro.
       Li avevo guardati di sottecchi mentre passavo, distogliendo subito infastidito lo sguardo. Dentro di me sentivo il cuore stretto in una morsa di ferro.
       Candy mi invase la mente, i suoi dolci angelici occhi azzurri, le onde dorate che carezzano le sue spalle e la schiena. Perché tra noi non c'era quella passione? Cos'avevo fatto di sbagliato? Forse nulla, non avevo fatto proprio nulla.
       Diedi un altro, svogliato, morso.
Il panino era il solito, ma la panchina no. Qualcosa era cambiato nella monotonia delle mie giornate. Quello che mi turbava era però il risvolto negativo di quella triste pausa pranzo. Mi aveva fatto pensare troppo al vuoto nella mia vita e al fatto che non avevo idea di come colmarlo.

 Mi aveva fatto pensare troppo al vuoto nella mia vita e al fatto che non avevo idea di come colmarlo

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Tolsi le scarpe all'ingresso, le misi al loro posto nella scarpiera bianca. Il buio e una spiacevole frescura ad accogliermi, unite al profumo di rosa usato da Candy.
       Lei però non c'era. Accesi le luci e sedendosi sul divano tirai fuori dal mio borsello il cellulare. Lessi l'unico messaggio.

Amore, torno tardi. Non aspettarmi per cena. Mangio un panino qui. Baci, mangia sano e non arrabbiarti.

Colto da un moto di rabbia sbattei il cellulare sul divano, mentre un doloroso nervosismo mi contraeva i muscoli del petto.
       Solo. Sempre solo. E poi si aspettava che facessimo l'amore? Tornava a casa tutta sorridente come se nulla fosse pensando che io la accogliessi a braccia aperte, solo perché era lei a fare i turni di lavoro più pesanti.
Mi chiedevo se fosse giusto, se non avessi un poca di ragione a sentirmi preso in giro.
       Afferrai con forza i miei capelli mentre lasciavo uscire lacrime colme di frustrazione, pungenti come aghi sulle mie palpebre.

Saltai la cena. Non avevo fame. Mi chiusi in bagno e feci una lunga doccia calda al profumo di lavanda e muschio bianco. Lavai anche i capelli, tentando di allungare quel momento di relax, che finì comunque troppo presto.
       Uscii dalla doccia avvolto da una nuvola di vapore. Rimossi il velo di nebbia dello specchio con il palmo della mano, per osservare il mio corpo nudo e perfetto. Accarezzai la pancia piatta, dove però non spiccavano gli addominali, unico dettaglio che stonava nelle mie fattezze invidiabili.
       Salii sulla bilancia, posta accanto al mobile del lavabo. Segnò 58 chili. Forse ero solo un po' troppo magro. Gli ultimi tempi mangiavo poco e forse stavo accumulando troppo stress, mi resi conto notando il mio volto smagrito e le occhiaie segnare le due grandi mandorle scure.
       Mi avvolsi nel mio accappatoio e strofinai con vigore i capelli con l'asciugamano, lasciandoli umidi; non avevo voglia di asciugarli.
       Rimanendo in accappatoio tornai in cucina per prepararmi un panino con del prosciutto avanzato dal giorno prima. Anche se mi era passata la voglia di mangiare, non potevo permettere che il mio corpo sfiorisse a causa della perenne assenza di Candy.
       Infilai una maglia comoda rimanendo in boxer, accesi il riscaldamento e occupai buona parte del piccolo divano, stendendomi. Avevo freddo, così afferrai la mia coperta grigia. Non mi accorsi di essere talmente stanco da chiudere subito gli occhi.

Una mano mi tirava, per portarmi da qualche parte. Vedevo molti vestiti e luci che accendevano il buio intorno a me.
       La stessa mano cominciò poi a sfiorarmi, mentre i miei pantaloni scivolavano via scoprendo il mio corpo, che sapevo essere splendido.
       Il cuore mi batteva forte, non riuscivo a formulare pensieri concreti e il suo volto era buio, così come l'alone scuro dei suoi vestiti.
Quando la parte più bassa dell'ombra scomparve, capii che si era tolto i pantaloni. Sapevo che lui era un ragazzo, ma non ero in grado di ricordare né come facessi a saperlo e meno ancora chi fosse. Eppure ero certo di conoscerlo.
       Mi disse di togliermi il resto dei vestiti e lo ascoltai, anche se titubante. Ero sudato, faceva caldo. Sentivo il fiato sul collo, le sue labbra accarezzare la mia pelle.
       «Tae.»
La sua voce era un brivido lungo la schiena, un pulsare frenetico in mezzo alle cosce.
Lo volevo, eccome se lo volevo.
       «Tae, amore, sveglia!»

Aprii gli occhi sbalzato fuori da un sogno che mi aveva lasciato la maglia incollata di sudore. Il mio cuore martellava nel petto e mi resi conto della mia erezione, per fortuna nascosta dalla coperta.
       «Amore, tutto bene?» I capelli raccolti in una cosa disordinata e la borsa ancora in spalla, Candy mi fissava preoccupata.
       «Sì, certo, tutto bene» dissi tentando un sorriso con le mie labbra tremolanti. Non convincevo neanche me stesso.
















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