Quattro anni dopo.


La baciavo con svogliatezza quella sera. Non so cosa mi fosse preso, ma sentivo che non stava andando bene come al solito.
       Lei mugolava sotto di me, le cosce strette attorno ai miei fianchi; i suoi folti capelli dorati ricoprivano a raggio tutto il cuscino che accoglieva la sua testa.
       Forse non mi stavo impegnando più di tanto, ma sembrava godere comunque.
Era grazie alla mia bellezza che tremava a ogni mio sguardo? Erano davvero le morbide spinte con cui mi introducevo dentro di lei a farle inarcare la schiena nell'intento di aumentare la profondità di quel movimento?
       Molte domande affollavano la mia mente, anche se sapevo che i miei occhi non mostravano la minima emozione. Una mia caratteristica che mi faceva apparire forse ancor più attraente.
       Sentivo le sue labbra vogliose di me quando appoggiavo le mie sulle sue e la sua intimità avvolgersi stretta attorno alla mia; eppure non ci riuscivo. Non riuscivo a baciarla con la solita dedizione.
       Forse avrei dovuto provare io più piacere, mi dissi avvertendo la mancanza del solito calore che nelle nostre notti di passione mi spingeva a prenderla con più vigore. Forse era davvero mio il problema. Che cosa mi stava capitando? Io la volevo, no? Volevo godere. Eppure...
       Le sue mani mi presero il volto attirandomi a sé. «Ti amo.»
       Avrei dovuto risponderle che anch'io la amavo, ma le parole non uscirono dalle mie labbra socchiuse. Camuffai quella mancanza muovendomi con più forza dentro di lei.
La sentii ansimare, i suoi occhi si fissarono sui miei; erano lucidi.
       «Ti faccio male?» avanzai titubante.
       «No, al contrario» sussurrò sorridendo.
Eppure sembrava che stesse per piangere, così le accarezzai una guancia e tentai un bacio più appassionato. Ti amo, così difficile da dire che nonostante ci frequentassimo da quasi un anno non gliel'avevo ancora detto.
E mi chiedevo il motivo, che cosa ci fosse che mi bloccava, mentre cominciavo a percepire una debole ondata di piacere pervadere il mio membro.
       «Tae, di più.» La sua voce sottile mi implorò e io cercai di accontentarla, ma ero stanco. Raggiunsi l'apice quasi senza aver goduto, lasciando sul suo volto un'espressione di dolorosa insoddisfazione. L'avevo abbandonata proprio sul più bello, compresi uscendo con dolcezza da lei.
       Mi avvolsi subito nelle lenzuola, coprendo la mia nudità, vergognandomi della mia penosa prestazione. Credevo se ne andasse arrabbiata, invece entrò sotto le lenzuola e rimase lì con me, la testa appoggiata sul mio petto mentre riprendeva fiato. Il suo respiro mi solleticava la pelle, appena accaldata.
       Era una bella mattina di maggio, eppure io avevo freddo. Era un gelo che veniva da dentro, da qualche parte di me che forse non ricordavo.
       Dopotutto c'era molto che ancora la mia mente non era in grado di riportare a galla.
Il mio primo ricordo, comunque confuso, era il mio risveglio, quattro anni prima, in una stanza d'ospedale. Prima di quello solo immagini contorte, astratte, come pennellate di un quadro di Picasso, a cui non riuscivo a dare una vera definizione.
Sapevo solo di essere stato in coma alcune settimane dopo un incidente in auto. Ed ero solo. Almeno finché non conobbi lei, Candice.
       «Tutto bene?» mi chiese lasciando un dolce e umido bacio sul mio petto.
       La strinsi in un abbraccio, senza rispondere. Qualcosa nel profondo mi turbava e non riuscivo a capire cosa fosse.
Di solito non cercavo di badare a quelle sensazioni, mi ritenevo forte, ma forse quella forza stava pian piano scemando.
       Candice rimase con me tutta la notte, senza mai muoversi dal mio abbraccio.

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La mattina mi svegliai solo, il mio braccio destro abbandonato sullo spazio vuoto tra le lenzuola, la mano a palmo aperto a ghermire l'aria.
       Non era da me dormire supino, infatti ebbi subito la sensazione di non aver riposato affatto bene.
       Mi sollevai a sedere. Sopra il cuscino accanto al mio il solito, triste, foglietto bianco, che quasi si confondeva col candore della fodera. La calligrafia, frettolosa, era quella della mia amante.

È stato bellissimo come sempre. Non vedo l'ora di rivederti. Ti amo, la tua Candy.

Sospirai, preparandomi a collezionare l'ennesimo biglietto che, non so bene per quale motivo, mi ostinavo a conservare in una busta da lettere nel comodino.
       Forse perché dopotutto quando non c'era, Candy mi mancava.
       Mi alzai, lasciando il letto in disordine, per dirigermi assonnato al bagno, dove per qualche attimo mi guardai allo specchio.
I capelli scuri un po' lunghi sulla nuca, i pochi peletti sul mento lasciati allo sbaraglio su una pelle lucida, poco curata. Mi era spuntato anche un piccolo brufolo, che salutai con sarcasmo.
       Mi vedevo orribile, eppure quella ragazza impazziva per me, e non era la sola. Mi capitava spesso che la gente, soprattutto ragazze e adolescenti, mi additassero con una certa enfasi. Non ne riuscivo a capire il motivo.
       Lavai la faccia, eliminai quei pochi peli che non mi rendevano per nulla orgoglioso e cercai di domare i ciuffi ribelli che non ne volevano sapere di stare al loro posto.

Uscii dal monolocale con indosso una tuta da jogging. Sentivo il bisogno di muovermi e immaginavo che prima dell'incidente il mio corpo fosse abituato a una costante e intensa attività fisica dato che mi ritrovavo un fisico molto snello e tonico. Da quel punto di vista mi piacevo, anche se desideravo addominali scolpiti quando invece la mia pancia era un po' morbida.
       Fuori l'aria era fresca, perfetta per andare a correre, e un bel sole dominava su quel tranquillo quartiere nella periferia di Milano.
       Mentre sfilavo accanto alle case, il corpo ancora intorpidito dal sonno, ripensavo a quando Candy e io avevamo deciso di lasciare New York. Era stata sua l'idea dell'Italia. Non ci era mai stata, mi confidò, e uno dei suoi sogni era visitare Roma, Firenze e Venezia. Dopo un viaggio veloce in alcune delle più belle città d'Italia, ci stabilimmo però a Milano, dove lei trovò lavoro in ospedale come infermiera.
       All'inizio io ero disoccupato, ma non me lo fece mai pesare lavorando molte ore per il nostro sostentamento. Continuò a lavorare sodo anche dopo, accettando orari scomodi, talvolta anche notturni, pur di non perdere il posto, ma lasciandomi spesso solo. A volte nemmeno tornava a casa, rimanendo a dormire da una collega che abitava vicino all'ospedale.
       Ed era così cominciata la mia collezione di biglietti bianchi, che molte mattine ritrovavo sul cuscino al posto del suo grazioso volto e dei suoi capelli biondi.
       E se avessi anch'io iniziato a fare così?
Se il mio lavoro fosse destinato a qualcosa di meglio di un banale negozio d'abbigliamento? Mentre correvo sempre più veloce, notando appena con la coda dell'occhio gli alberi del parco farmi da sfondo, pensavo a tutto questo e mi chiedevo cosa fossi stato prima dell'incidente. Forse era giunta l'ora di scoprirlo.






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