Capitolo Tre: Nel Bosco

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Il clone pesta i piedi nella sua corsa forsennata, come se avesse una meta precisa da raggiungere, tira dritto infilandosi nel bosco, incurante della vegetazione abbastanza fitta da ferirle le braccia scoperte e graffiarle il volto. Ode attorno a sé il suono scricchiolante delle foglie secche disintegrate dal suo passaggio, il crack dei rami spezzati dalla sua massa in movimento. Le giungono al cervello sotto forma di di rumori ovattati, lontani. "La mia mamma diceva sempre che i mostri non ci sono, che non esistono i mostri, ma esistono.", serra le palpebre, avanzando alla cieca, nell'intento di scacciare il ricordo e contemporaneamente richiamarlo alla memoria per farlo ancora più concreto, gli occhi le si riempiono di lacrime e i singhiozzi la colgono all'improvviso, ostacolando il suo bisogno d'aria.

Il suo viso rotondo, lo sguardo fiducioso, illuminato da una fievole luce arancione, "Tieni... prendi questo... porta fortuna...". Non ha idea da quanto tempo stia scappando e la sua mente è talmente confusa che non sa più nemmeno perché e da cosa stia fuggendo.

La bimba tra le sue braccia, luci rosse lampeggianti intorno a loro, pioggia battente a infradiciarle, "Burke, è stato Burke!". Urta con una spalla l'enorme tronco di una quercia che la sbilancia prepotentemente, facendola sbandare di lato, i suoi piedi incespicano su un imprecisato ostacolo nel sottobosco e ogni tentativo di mantenersi in equilibrio viene meno.

Piccole dita che s'intrecciano alle sue attraverso una grata sul pavimento, un senso di urgenza accecante quanto la luce della fiamma ossidrica che fonde il metallo. Si arrende alla forza di gravità, che la trascina con un tonfo nel mare di foglie secche, corteccia in putrefazione e terra umida. Resta lì, in una posizione scomposta, ansimante, senza neanche le forze per rotolare di lato e liberare il braccio finito sotto di sé. Il tormento e la rabbia crescono ad ogni flash fornito dalla memoria a briglia sciolta.

La smorfia dello sforzo sul suo visino, i suoi capelli impregnati di sostanza viscida, dolore ai palmi squarciati mentre strappa via il bozzolo che la imprigiona. "Afferrati a me!". I suoi lamenti crescenti fanno da eco alle dolorose immagini che le invadono la mente.

Il suo esile corpicino avvinghiato addosso, una piattaforma instabile, il sibilo della creatura che le bracca. Una mano a coprirle il volto, "Chiudi gli occhi, tesoro.". È talmente sopraffatta che il fruscio e lo scricchiolio di qualcosa che si avvicina lentamente, tra la boscaglia, le passa totalmente inosservato.

Il suo corpo aderisce a qualcosa che somiglia a un'enorme armatura, i suoi movimenti resi fluidi dalla dimestichezza nel comandare il mezzo. Un'enorme porta metallica che si apre scorrendo verso l'alto, e la Regina che si volta nella sua direzione mentre lei continua ad avanzare, motivata dall'istinto materno, "Sta lontano da lei, maledetta!". E un ringhio sordo.

Sommesso, circospetto, insistente, persistente, cadenzato, concreto, minaccioso. Solleva lentamente le palpebre, finalmente consapevole della presenza reale, un paio d'occhi da predatore brillano ne buio, a debita distanza, una sagoma dal pelo ispido illuminato dalla luna. Denti scintillanti scoperti dalle gengive arricciate.

Il suo istinto animalesco prende il sopravvento, alimentato dal dolore e dalla furia provocati dai ricordi, il clone si muove lenta e sinuosa in una postura acquattata e composta, sfida l'animale fissandolo negli occhi. Un urlo sovrumano le esce dalla gola, sovrastando il ringhio dell'avversario. È carico di tormento, di collera, di strazio. Grosse lacrime le rigano le guance deformate dalla smorfia del grido, lo sostiene finché il fiato glielo consente. Poi la sua voce si frantuma, tramutandosi in un ultimo sbuffo singhiozzante. Lo sfogo prosegue, in un'alternanza di urla furibonde e sommessi lamenti tormentati.

Il lupo si ritira nel buio e sparisce allontanandosi nella fitta boscaglia, confuso e intimorito dallo strano animale che all'inizio sembrava una facile preda malata o ferita gravemente.

**********

Call affretta il passo, mossa dall'urgenza del grido che le giunge alle orecchie, "Ripley!", urla, sperando di poter essere udita oltre il mare di vegetazione. Individua la pista di rami spezzati e prosegue di corsa, guidata dal suono che riempie la foresta. Si maledice al pensiero di non essersi portata dietro la pistola, temendo che la donna sia in pericolo. È costretta a rallentare, affinché il rumore della sua andatura non copra quello delle grida che si stanno affievolendo, per un attimo è confusa, pensa di aver interpretato male la loro provenienza, ma a un tratto i suoi occhi la individuano.

La sua figura giace in ginocchio, scossa da violenti sussulti, i lamenti strazianti che continua a emettere le provocano fitte dolorose al torace. "Ripley...", la chiama dolcemente mentre si avvicina. Le mani della donna avvinghiano il terreno umido, sul suo viso graffiato, sanguinante e rigato dalle lacrime, persiste una smorfia d'indicibile sofferenza. Le si accuccia davanti, muove una mano verso un braccio dai muscoli contratti. Si blocca, notando altri squarci sporchi di sangue e terra sulla pelle. Una sottile nebbiolina si alza tenue dai tagli, illuminata dalla luna.

"Vattene.", la parola esce strozzata, "Cosa? No!", la guarda con tenerezza scuotendo lentamente il capo. "Ti farò male, vattene!", insiste il clone. "Avanti, allora!", la giovane sbotta sfidandola senza timore, "Lasciami stare! Non capisci.", si giustifica l'ibrido. "E allora dimmi che succede!", ribatte l'altra spazientita. "La mia rabbia, è incontrollabile.", la donna sibila a denti stretti. "Ne sei proprio sicura? È per questo che ancora non mi hai messo una mano alla gola spezzandomi l'osso del collo?", le si fa più vicina, impavida, le offre la delicata pelle sotto il suo mento. L'altra la fissa confusa, si passa un avambraccio sulla punta del naso, una scia di muco luccica sulla pelle. La mano dell'Auton scivola sulle foglie per terra, la punta delle sue dita toccano timidamente quelle della figura davanti a lei. "Non vado da nessuna parte... e nemmeno ti lascio qui.", insiste, rassicurandola. Prova a stringere la presa sulla sua pelle tremante, l'altra sfugge il contatto, riprendendo a singhiozzare.

"Ho affondato le mani nel suo torace aperto.", Ripley dichiara con sgomento, la fronte dell'androide si contrae cercando di capire il senso di quella frase, resta in silenzio, in attesa. "Posso ancora sentire il gelo del suo corpicino senza vita.", prosegue sollevando i palmi e contemplandoli. Inghiottisce angosciata e si copre la bocca, chiude gli occhi e un tremito le percorre il corpo imponente. Call si toglie velocemente il giubbotto e con premura lo appoggia sulle sue spalle, azzarda timidamente un abbraccio e quando sente che l'altra non reagisce, la sua presa si fa più concreta. "Tu hai fatto tutto quello che potevi, e anche di più, per quella bambina.", la conforta, realizzando la natura della sua sofferenza. "Non ricordo nemmeno il suo nome.", Ripley ribatte con voce ancora inferma. L'androide prende a cullarla dolcemente, le avvicina le labbra all'orecchio, "Si chiamava Rebecca, ma tutti la chiamavano Newt.", il corpo del clone si rilassa finalmente tra le sue braccia. Dopo averle concesso, qualche altro minuto per riprendersi, la giovane le propone di tornare alla Betty e, seppur con riluttanza, Ripley si stringe la minuscola giacca sulle spalle e accetta la mano che le viene offerta.

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