[𝟏] 𝐰𝐡𝐞𝐧𝐞𝐯𝐞𝐫 𝐭𝐡𝐞 𝐬𝐭𝐚𝐫𝐬 𝐭𝐫𝐲 𝐭𝐨 𝐭𝐚𝐤𝐞 𝐲𝐨𝐮 𝐚𝐰𝐚𝐲

95 8 0
                                    

Note: ho scritto questa storia anni fa, prima che uscisse il finale di Haikyuu, e ho deciso di ripubblicarla perché dopo aver finito di leggere il manga i miei feels erano (e sono) alle stelle, e tutto sommato anche se risale al 2015/16 non mi fa del tutto schifo lol. buona lettura :)


"whenever the stars try to take you away

I know you'll still shine without me

(thank heavens)

I can't blame them for taking back one of their own

but if you start falling for their wishes and not yours

screw fate- I'll fight to bring you home"

Grigio era tutto ciò che riusciva a vedere. Nuvole perenni offuscavano ormai anche la propria mente, e tutto ciò – mano a mano – stava anche iniziando a risultargli familiare.

L'università iniziata ormai pochi anni addietro, era quasi l'ultimo dei suoi pensieri; non era mai stato così bravo nello studio, ma ormai quello era l'ultima nonché unica cosa a cui potesse dedicarsi.

Se solo avesse prestato più attenzione, probabilmente, le cose non sarebbero cambiate così drasticamente ed adesso sarebbe anche stato in grado di intravedere uno spiraglio di luce in quelle decine di nuvole che ormai lo circondavano.

*

Anche quel giorno era passato lentamente, ma finalmente poteva scorgere il traguardo, in quel preciso momento rappresentato dalla branda posta in un angolo del monolocale nel quale era appena entrato. Non riusciva ancora a chiamarlo casa, anche perché era soltanto una sistemazione più vicina al centro di studi, e non aveva alcuna intenzione di passare lì più tempo di quanto non fosse strettamente necessario.

Si chiuse la porta alle spalle, appoggiandosi al muro del minuscolo ingresso per togliersi le scarpe. Nello stesso momento, squadrò con la coda dell'occhio la propria figura riflessa in uno specchio appeso allo stesso muro.

Forse per la prima volta in tutta la sua vita, Kageyama Tobio desiderò di tornare ad essere il "Re"; persino quello sarebbe stato meglio.

Non si era mai considerato di bell'aspetto – più che altro perché non gl'importava – ma in quel periodo cominciava davvero ad accorgersi che la sua immagine non rendeva affatto giustizia ad un ragazzo appena ventenne, nel pieno della sua gioventù. Le classiche occhiaie si erano stanziate sotto ai suoi occhi da quasi una settimana, e sulla pelle più pallida del solito non potevano che notarsi ancora di più. I capelli, inoltre, non avevano più quella pettinatura composta che lo caratterizzava, ma a ciò non diede molto peso.

Al contrario, focalizzò lo sguardo sul proprio braccio sinistro; a sorreggere la sua figura, infatti, non era la gamba – piegata lievemente per evitare di spostare il peso su di essa –, ma una stampella.

In quel preciso istante, il suo volto si deformò in un'espressione quasi di disgusto. Digrignò i denti, facendoli quasi scricchiolare in modo macabro, mettendo così in risalto anche la linea della mascella. Non doveva pensarci, non doveva. Reprimere la frustrazione era la cosa migliore che potesse fare, ormai se lo ripeteva dall'incidente. Il suo orgoglio non voleva abbandonarlo, dopotutto; strinse ancora più forte il manico della stampella e chinò di poco il volto, aspettando che quella rabbia che continuava a divorarlo dentro finisse al più presto.

Era accaduto tutto in un attimo. L'ultima partita del terzo anno.

Erano andati ad assisterli perfino i loro vecchi senpai, e nonostante non l'avrebbe mai ammesso, questo in qualche modo lo confortava.

Probabilmente si era distratto, non ricordava più neppure cosa fosse successo di preciso... Forse era caduto, o era andato a sbattere da qualche parte; pensava fosse solo un infortunio leggero alla caviglia, e invece – ore dopo, circondati dalla puzza di disinfettante da ospedale – quell'idiota in camice bianco gli aveva riferito che ci avrebbe messo molto a guarire, e – non solo! – non erano certi che continuare a sforzarsi in quel modo, anche dopo la convalescenza, gli avrebbe fatto bene.

Buttò la stampella a terra, imprecando ad alta voce. Si sentiva estremamente inutile, a dir poco frustrato, ed adesso ci si mettevano anche i ricordi. Aggrappandosi disperatamente al muro, reprimendo qualche verso di dolore, come un cane ferito si trascinò fin sul letto.

Tre mesi, la caviglia era quasi guarita. Ora che frequentava un corso preparatorio per l'università – i suoi genitori erano seriamente preoccupati per i suoi voti e per i test d'ingresso che avrebbe dovuto affrontare – aveva più tempo da passare da solo, e così, di nascosto, aveva ricominciato a giocare a pallavolo.

Da solo non poteva fare un granché, però, e la differenza gli risultò ancora più evidente quando una certa persona, che aveva continuato a frequentarlo contro ogni pronostico, lo scoprì e decise di aiutarlo continuando a giocare con lui.

Probabilmente fu lì che le cose precipitarono.

Dopo un'alzata, atterrò in modo sbagliato e cadde nuovamente a terra. Riusciva a ricordare solo un dolore lancinante, un disgustoso senso di déjà-vu e il pallone che, invece di infrangersi a terra con il classico rumore della schiacciata, rimbalzava lentamente sempre più lontano.

In fondo era stato avvisato; non aveva ascoltato quei consigli, ed adesso doveva subirne le conseguenze. Aveva creato lui stesso un danno irreparabile, e non sarebbe mai guarito del tutto.

Ancora una volta prevalevano le sensazioni ai ricordi: aveva pianto e soffocato urli nel cuscino tutta la notte, e probabilmente fu già da allora che la sua vista iniziò a coprirsi di nuvole.

Niente da fare, quei pensieri continuavano a tormentarlo. Eppure aveva abbandonato tutto, si era lasciato qualsiasi cosa che gli ricordasse quell'avvenimento alle spalle proprio per quello, proprio per dimenticare tutto e scivolare nella più completa apatia fino alla fine dell'università.

E invece gli ritornavano in mente prima di addormentarsi; la sua famiglia, i compagni del club di pallavolo che col tempo aveva imparato a chiamare amici; e lui, quel maledetto ragazzino che lo aveva pregato di non andarsene urlando contro la porta di casa sua per giorni e giorni, fin quando non l'aveva più trovato.

Dall'alto del suo egoismo, non era certo di rimpiangere la scelta di trasferirsi in città ed interrompere ogni comunicazione con loro – si sa, lontano dagli occhi, lontano dal cuore – ma era abbastanza lucido da comprendere di non aver preso la scelta giusta.

Affondò il volto nel cuscino e strinse al contempo un lembo del lenzuolo; no, non avrebbe pianto. Ormai era un uomo, e davanti ad ogni difficoltà, non poteva piegarsi in due e mettersi a frignare; non l'aveva fatto da ragazzino, figurarsi ora...

Eppure – constatò dopo un po', con il sapore salato delle lacrime sulle labbra – quei pensieri non gli erano mai sembrati così inutili.

And I hush [kghn]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora