II

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Giaceva su qualcosa che dava l'idea di un giaciglio da campo, salvo che era sollevato a una certa altezza dal suolo e che egli vi era fissato in modo che qualsiasi movimento gli fosse impossibile. Gli pioveva dritta sulla faccia una luce che sembrava ancora più intensa del solito. O'Brien era in piedi accanto a lui e lo scrutava attentamente. Dall'altro lato c'era un uomo in camice bianco, che stringeva fra le dita una siringa ipodermica.

Anche quando aveva ormai gli occhi aperti, solo lentamente riuscì a distinguere i contorni di ciò che lo circondava. Aveva l'impressione di essere risalito a nuoto in quella stanza, provenendo da un mondo del tutto diverso, una specie di sottostante mondo sottomarino. Non sapeva assolutamente da quanto tempo si trovasse lì. Dal momento in cui l'avevano arrestato, non aveva visto né la luce né il buio. I suoi ricordi, inoltre, erano discontinui. Vi erano stati momenti in cui la coscienza di sé, perfino quella particolare autocoscienza che si conserva durante il sonno, si era annullata del tutto, per poi riapparire dopo una parentesi di vuoto. Ma non c'era modo di sapere se questi intervalli fossero durati giorni, settimane o pochi secondi.

Dopo quel primo colpo era cominciato l'incubo. In seguito avrebbe compreso che quanto era accaduto dopo non era che un interrogatorio preliminare, di routine, al quale erano sottoposti tutti i detenuti. Prevedeva una vasta gamma di crimini, dallo spionaggio al sabotaggio e via di seguito, che tutti dovevano confessare come altrettanti dati di fatto. E tuttavia, se la confessione era una formalità, la tortura era vera. Non riusciva neanche a ricordare quante volte era stato percosso e per quanto tempo. Ogni volta c'erano sempre cinque o sei uomini che si accanivano su di lui. A volte si trattava di pugni, a volte di manganellate, a volte di colpi vibrati con bastoni di ferro, altre volte ancora calci. Talvolta rotolava sul pavimento inerme come un animale, contorcendosi in un continuo e inutile sforzo di scansare i calci, col solo risultato di riceverne ancora di più, sulle costole, nel ventre, sui gomiti, negli stinchi, nell'inguine, sui testicoli, sull'osso sacro. In certi casi il pestaggio durava così a lungo da indurlo a pensare che la cosa crudele, malvagia e imperdonabile non fosse tanto il fatto che le guardie eccedessero nell'infierire sulla sua persona, ma che fosse lui a non riuscire a imporsi di svenire. Altre volte il suo sistema nervoso lo tradiva a tal punto, che cominciava a implorare pietà prima ancora che cominciassero a colpirlo, e la sola vista di un pugno chiuso che stava per partire bastava a fargli confessare colpe reali e immaginarie. In altri momenti si imponeva fermamente di non confessare nulla, e allora ogni singola parola doveva essergli estorta fra rantoli di dolore, in altri ancora cercava dei fragili tentativi di compromesso, come quando diceva a se stesso: "Confesserò, ma non subito. Devo resistere finché il dolore non diventerà insopportabile. Altri tre calci, altri due, e gli dirò tutto quello che vogliono". A volte lo colpivano finché riusciva a stento a reggersi in piedi, poi lo scaraventavano come un sacco di patate sul pavimento di pietra di una cella, lo lasciavano lì per qualche ora per fargli recuperare un po' di energie, poi lo tiravano nuovamente fuori per riprendere a picchiarlo. A volte il lasso di tempo che gli concedevano per riprendere le forze era più lungo. Ne aveva solo un ricordo indistinto, perché lo passava quasi tutto dormendo o in uno stato di torpore. Ricordava una cella con un tavolaccio (una specie di mensola infissa nel muro), una bacinella di stagno, e pasti consistenti in zuppe calde, pane e qualche volta caffè. Ricordava un barbiere dai modi sgarbati che periodicamente gli raschiava il mento e gli tagliava i capelli alla bell'e meglio, e uomini dall'aria professionale in camice bianco i quali, senza lasciar trasparire alcun sentimento, gli tastavano il polso, controllavano i suoi riflessi, gli rovesciavano le palpebre, gli percorrevano il corpo con movimenti bruschi delle dita, in cerca di ossa rotte, gli ficcavano aghi nel braccio per farlo dormire.

I pestaggi si fecero poi meno frequenti, assumendo la forma della minaccia, di un orrore nel quale — se le sue risposte non fossero state ritenute soddisfacenti — poteva sempre essere ricacciato. Ora a interrogarlo non erano più energumeni in uniforme nera, ma intellettuali del Partito, ometti scattanti e ben in carne, con occhiali lucidissimi, che si dedicavano a lui, dandosi di tanto in tanto il cambio, per periodi di tempo che — almeno così pensava — duravano dalle dieci alle dodici ore. Tutti questi inquisitoli facevano in modo che in simili circostanze Winston patisse comunque una qualche forma di leggero dolore fisico, ma non era su di esso che facevano soprattutto affidamento. Lo schiaffeggiavano, gli torcevano le orecchie, gli tiravano i capelli, lo costringevano a reggersi su una gamba sola, non gli consentivano di minare, lo abbagliavano con la luce dei riflettori fino a quando gli occhi non gli lacrimavano copiosamente, ma tutto ciò aveva l'unico scopo di umiliarlo e di distruggere in lui ogni capacità di ragionare e di argomentare. La loro vera arma era l'interrogatorio ininterrotto, che si protraeva per ore e ore, un susseguirsi di tiri mancini, di trappole, di distorsioni di tutto quanto lui diceva. Gli rinfacciavano a ogni istante menzogne e contraddizioni, finché non scoppiava in un pianto indotto dall'umiliazione e dallo sforzo nervoso. Nel corso di alcune sessioni capitava che scoppiasse in lacrime una mezza dozzina di volte. Per la maggior parte del tempo gli urlavano insulti, minacciando a ogni sua più piccola esitazione di rispedirlo dalle guardie, a volte, però, cambiavano improvvisamente tono, chiamandolo compagno, facendo appello a lui in nome del Socing e del Grande Fratello, chiedendogli con aria dispiaciuta se non fosse rimasta in lui almeno un po' di lealtà verso il Partito che gli facesse desiderare di riparare al male commesso. E quando, dopo ore e ore di interrogatorio, i suoi nervi erano quasi al collasso, perfino una domanda del genere lo faceva sciogliere in lacrime. Infine quelle voci che lo rampognavano riuscirono a infrangere la sua resistenza più degli stivali e dei pugni delle guardie. Diventò così solo una bocca che diceva qualsiasi cosa gli chiedessero di dire e una mano che firmava qualsiasi documento. Ogni suo sforzo era teso a scoprire che cosa volevano fargli confessare, in modo da poterlo fare subito ed evitare che il pestaggio riprendesse da capo. Confessò di aver as- sassinato membri eminenti del Partito, di aver distribuito volantini eversivi, di essersi appropriato indebitamente di fondi pubblici, di aver venduto segreti militari, di aver svolto attività di sabotaggio di ogni genere. Confessò che fin dal 1968 era una spia al soldo del governo estasiano. Confessò di avere una fede religiosa, di essere un fervente sostenitore del capitalismo e un pervertito dal punto di vista sessuale. Confessò di aver ucciso la moglie, pur sapendo bene — e certamente doveva saperlo anche chi lo interrogava — che era ancora viva. Confessò che da anni era in contatto diretto con Goldstein e che faceva parte di un'organizzazione clandestina che comprendeva fra i suoi membri quasi tutti gli esseri umani che aveva conosciuto nel corso della sua esistenza. Confessare ogni cosa e tirare in ballo chiunque rendeva tutto più semplice. In un certo senso, si trattava della pura verità: lui era stato effettivamente nemico del Partito, e agli occhi del Partito non c'era differenza alcuna fra il pensiero e l'azione.

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