8.2

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Charles' POV

Sono devastato.

Vederla lì in piedi, in quel bar, ad accarezzarsi la pancia gonfia ormai impossibile da nascondere. Gli occhi stanchi, ma carichi di speranza che vedendomi si sono accesi di una luce che non le appartiene.

Salgo le scale esterne di casa affogando nel mio silenzio. Ho sempre pensato di essere pronto per un passo del genere, ma con la donna che amo, non con quella che mi ha distrutto, strappato via brandello dopo brandello.

Ma non posso lasciarla sola. Nessun bambino si merita di nascere senza un padre, ed io che il mio l'ho perso, so cosa vuol dire sentirne la mancanza.

Sono svuotato di ogni energia. Sento le gambe pesanti e la morsa allo stomaco che mi uccide ad ogni gradino.

Sto tornando dall'amore della mia vita per dirle che sarò padre del bambino di un'altra donna. E non è tanta la paura che possa dare di matto, quanto quella di poterla perdere per sempre.

Tento di non fare rumore girando la chiave nella serratura, ma non appena apro la porta me la ritrovo davanti, con le mani sui fianchi e le labbra increspate dal disgusto.

Il magone alla gola si allarga soffocando ogni mia speranza che potesse andare tutto bene, che potessimo continuare la nostra vita come se niente fosse.

«Amore, mi hai fatto prendere un colpo.» faccio finta di niente. Mi chiudo la porta alle spalle e tento di raggiungere il salone, ma lei non si scansa.

«Dove sei stato?» si passa la punta della lingua sul labbro inferiore, per poi lanciarmi un'occhiata infuocata a denti stretti.

Le porgo il sacchetto con i cornetti che ho comprato prima di tornare a casa, «Sono andato a prendere la colazion-» fa cadere il sacchetto a terra che interrompe il solo rumore dei nostri respiri tesi.

«Charles, dimmi dove sei stato se non vuoi che te lo dica io.» inarca un sopracciglio e porta il mento in alto, per fronteggiarmi.

«Gaia, ti posso spiegare...»

«Hai dimenticato questo stamattina.» estrae dalla tasca dei jeans un soggetto che identifico immediatamente con il mio cellulare, se lo rigira tra le mani, lo fa penzolare dalle dita. Sorride amara.

«Adesso mi controlli anche il telefono?» me lo riprendo, ma mi rendo conto che questa volta è inutile replicare così, non posso giustificarmi, le ho mentito, e avevamo promesso di poterci fidare ciecamente l'uno dell'altra.

«No.» fa spallucce, «Ma alla ventesima chiamata di Charlotte mi sono incuriosita.» le sfugge una risata satura di tutta l'amarezza e il rancore che prova verso di me.

«Non è come pensi.» tento di aggrapparmi ai suoi occhi con i miei, così che capisca che non le sto mentendo. Ma lei sfugge al mio sguardo, piega la testa di lato, poi però, mi punta il dito contro.

«Ah, non è come penso?! Di' un po', ma io c'ho scritto gioconda in testa? Pensi di potermi prendere per il culo?»

«Gaia. Charlotte è incinta, ed è mio.» sputo il rospo, togliendomi un peso dallo stomaco che mi si ritorce contro in altri cento.

Indietreggia annaspando fino a toccare il muro alle sue spalle. Gli occhi le si riempiono di lacrime ed io mi sento talmente impotente.

Una delle tante cose che ho imparato di lei da quando stiamo insieme, è che il pianto per lei è come un tabù. Perciò, se le scappa anche una sola lacrima di fronte a te, vuol dire che rientri in quelli piccola, minuscola cerchia di persone cui si fida ciecamente. È come se si spogliasse della sua stessa pelle, mettendo da parte ogni forma di corazza, per prostare di fronte a te ogni dettaglio delle sue insicurezze. Vederla così adesso è un pugno allo stomaco, perché lei ha imparato a fidarsi di me, e io l'ho distrutta.

Non dice una parola, ma le trema la voce. China il capo prima di scappare verso la nostra camera da letto, lasciandomi lì a respirare quel silenzio distruttore che ha innalzato come un muro fra di noi.

Sento il cuore che smette di battere, le ossa fragili, lo stomaco stringersi fino a far male. Le corro dietro e l'immagine che ho di lei adesso è come la lama di un coltello che si conficca nel petto.

Le valigie aperte sul letto e i vestiti buttati a casaccio lì dentro. Chiude entrambe le zip e mi supera con una spallata.

«Dove vai?»

Silenzio.

«Gaia, ti prego. Resta, possiamo superare anche questa se rimaniamo insieme.»

Silenzio.

«Possiamo fare un po' per uno, quanti bambini al mondo crescono con una madre e un padre separati?»

«Charles, non è un cazzo di giocattolo.» urla aprendo la porta e precipitandosi giù per le scale, «Non puoi fare un po' per uno, non potrai mai, lui o lei avrà sempre bisogno di te. Ed io in tutta questa storia non c'entro niente.»

La seguo a ruota e non appena arriviamo nel vialetto mi punta il dito contro. Tento di sollevarle il mento ma ritrae il volto rigato dalle lacrime.

«Vorrà venire a vedere le tue gare, Charles. E quando ti vedrà con me? Tirerai fuori la storia dell'amica di papà che gli vuole tanto bene? E poi magari quando crescerà si renderà conto che io non sono altro che un parassita, una povera cretina che ha pensato di poter separare i suoi genitori.»

Si porta una mano sulla fronte per poi spalmarla sul viso e cacciare via le lacrime che però continuano a straripare come fiumi in piena.

«Tu credi che io non li voglia dei bambini? Io ne farei dieci di figli con te, solo con te, solo perché sei tu. Ma non posso stare con te con la consapevolezza di essere solo un ostacolo.»

Istintivamente la stringo a me in un abbraccio che ha il sapore amaro di un addio. La vista mi si offusca per mano di quelle rivelatrici aspre che come brina vergogno giù a bagnarle i capelli corvini.

«Non potresti mai essere un ostacolo.» le sussurro all'orecchio, ma lei scioglie il nostro abbraccio, rassegnata.

«Lasciami andare ti prego, non farmi soffrire più.»

E allora resto lì, a guardarla andare via, con i piedi incollati all'asfalto sotto le mie scarpe. Il cuore dal battito tanto ingombrante di quando mi stava a fianco adesso è vuoto, smembrato, dilaniato dalle fauci di un'amore che poteva essere immenso, ma si è spento come un fiammifero succube del gelo invernale.

Io il mio cuore l'ho perso. Si è perso sul rumore dei suoi passi distanti, dei suoi singhiozzi celati, della delusione che prova capendo quanto sono ingenuo, quanto facilmente mi faccio surclassare dalle difficoltà.

Il mio cuore si è perso. Pulsa ancora, ma in quella valigia rossa di cui non sento più il rumore delle rotelle.

Se lo è portato via, e non me lo restituirà mai più.

Instagram 2 - Charles Leclerc Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora