Gaia's POV
Scendo le scale di corsa con il cuore in gola. Nelle condizioni di chi è appena sopravvissuto ad una bomba atomica piombo fuori dal portone dell'albergo con una mano fra i capelli raccolti in una crocchia disordinata, la bocca semi aperta e il respiro affannoso.
Lo sguardo vaga di qua e di là fin quando i miei occhi si posano sulla carrozzeria rosso fiammante della F8 Spider di Charles, che ne viene fuori come nella scena di un film.
Gli occhiali da sole che per mano delle dita affusolate salgono fra i capelli disordinati, il passo lesto armonizzato dalle lievi pieghe dei jeans scuri attillati e la t-shirt nera che lascia scoperte le braccia. Di Charles però, ho imparato che la sua cura - talvolta eccessiva - dell'aspetto, ha il fine solo di nascondere il suo malessere, difatti, in riflesso ai timidi raggi di sole coperti da nuvoloni che si fanno sempre più scuri, posso notare come i suoi occhi siano vacui, stanchi, spenti.
Io me ne sto qui, con lo stomaco in subbuglio e le gambe che tremano, nervosa come non sono mai stata. Neppure mi riconosco, segregata anch'io nell'apparenza di una donna menefreghista che va avanti a tentoni per la sua strada.
La verità è che man mano, di quella strada che pareva così nitida, sto perdendo la rotta. Non ho più il senso dell'orientamento, e il mio viaggio sembra vacillare fra il raggiungimento immediato della meta e la totale dispersione nel nulla.
Io non ero così, e non so neppure come ci sono arrivata, ad arrampicarmi sulla vita quando prima la divoravo a morsi, quando pur di non ammettere di stare male affogo nelle bugie, pur di guardarmi allo specchio e sentirmi soddisfatta di qualcosa che neppure possiedo.
Io non ho bisogno di Charles per vivere, sono nata sola e posso tranquillamente continuare ad esserlo. Sono indipendente e lo rimarrò, ma quando incontri la persona giusta, non ti ci abitui più, a non sentire il suo respiro sulle labbra, le sue chiacchiere a vanvera, il suo canticchiare nella doccia, il suo russare per la troppa stanchezza e il modo buffo di trattenere la rabbia.
Io, da sola ci sono sempre stata bene, ma adesso mi basta il suono dei suoi passi per non sentirmici più, anche se lui non è più mio.
«Gaia...» è grazie al suono della sua voce che metabolizzo di essere rimasta imbambolata come una scema nella stessa posizione per svariati minuti.
Mi guarda, con le borse sotto gli occhi, le mani in tasca, il sorriso spento di chi tenta di riempirsi di nuovo il petto con un cuore che sia ancora capace di battere.
Siamo simili io e te, anche se siamo diversi. Tu così pacifico, io così caotica. Tu così preciso, io così improvvisata. Tu così razionale, io così folle. Siamo il giorno e la notte io e te, il sole e la luna, le onde del mare e la sabbia sulla spiaggia. Un uragano fra i raggi del sole. Eppure ci facciamo male io e te, perché tu sei tutto quello che non sono, ed io sono tutto quello che non sei. Noi, che non sapevamo di essere due pezzi combacianti di uno stesso puzzle, e che adesso, quando ci stacchiamo ci sentiamo incompleti.
«Dimmi tutto.» mi prendo di coraggio, gonfio il petto coperto dalla felpa enorme che indosso e lo fisso dritto negli occhi.
Il cielo già plumbeo si infittisce ulteriormente, un tuono romba su di noi e minuscole gocce mi sfiorano il viso pallido.
Prende un respiro profondo, e sento tutti e settecentoquarantacinque cavalli scalpitare fra le costole.
«Il bambino non è mio.»
E il cuore si fa più leggero.
Apro la bocca per chiedere spiegazioni ma non me ne dà il tempo.
«Ho insistito per fare l'ecografia a colori, volevo solo vederlo meglio e poi è comparso lì e...ed è improbabile.» farfuglia in preda alla foga, gesticola esageratamente ed una goccia di pioggia gli scorre lungo lo zigomo definito.
«Che cosa vuol dire che è improbabile?»
Si passa una mano fra i capelli, è ancora visibilmente scosso, tanto che si dimentica persino degli occhiali che scivolano per terra infrangendosi sul marciapiede.
Fosse stato un altro momento, si sarebbe quasi messo a piangere per i suoi poveri Ray-Ban numero duecentocinquanta, probabilmente imprecherà contro se stesso appena se ne accorgerà, ma in questo momento i suoi occhi non hanno altro interesse che me.
«Il bambino è di colore, Gaia. Non può essere mio.» sputa fuori come un groppo in gola che finalmente si scioglie, fluente, dopo essersi reso conto di aver tirato per tutto il tempo l'estremità del filo sbagliato.
«Ma che...» comincio frastornata senza riuscire a riprendere il filo del discorso, «E adesso Charlotte dov'è?»
«È in Francia, a cercare il vero padre del bambino.»
Un altro tuono squarcia il cielo, le gocce aumentano fino a bagnarci i capelli e offuscare di poco la vista.
«E-e tu?» alzo la voce per via del rumore dell'imminente temporale e delle macchine che sfrecciano in strada per affrettarsi verso le proprie abitazioni in vista del mal tempo.
«E io voglio passare ogni singolo giorno della mia vita con te, solo con te, per sempre con te.»
La pelle lievemente callosa dei suoi polpastrelli viene a contatto con le mie guance. Mi attira a se e finalmente, come fuochi d'artificio che esplodono senza tregua, posa le sue labbra sulle mie.
Solo te. Nient'altro che te.
Io e te, che siamo sbagliati, che siamo due controsensi, costantemente in contrasto, che si urlano contro per cazzate ma che hanno tanta di quella fame d'amore da non riuscire a stare lontani neppure un secondo.
Non mi sono mai abituata a te, perché ti amo da impazzire, e vorrei dirtelo adesso, ma quando non ci sei mi manca il fiato, e ora che sei tornato a darmi l'ossigeno, vorrei poter non smettere mai di respirare.
//Spazio Autrice//
Avrei voluto scrivere un capitolo più lungo, ma penso che non servano troppe parole❤️