Immobilità della partenza

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Anche se ti rasi a zero, i capelli crescono. Anche se decreti di non prendere più parti, è comunque una posizione. Le chiome s'allungano, s'intrecciano e infine cadono; può accadere di prendersi i pidocchi e rasparsi il cuoio capelluto in preda ad un inquietante e invasivo formicolio, che si sviluppa in un vampiresco crescendo notte dopo notte. Da bambina ho conosciuto questa seccante sottomissione della mia capigliatura, e mia nonna decise di tagliarmi i capelli a scodella perché la situazione non accennava segno di miglioramento. Da allora li ho lasciati crescere, e mentre me la davo a gambe imbevuta del buio di catrame, sentivo il mio nuovo grottesco parassita guidarmi, tirando con forza la radice annidata nel mio cranio. Era lui il responsabile del movimento delle mie ossa e dei miei muscoli, aveva occupato il centro sociale che erano i miei nervi. Fui costretta a fermarmi, schivando la luce dei lampioni che mi pareva un imponente, allarmante punto esclamativo, per rimettere quel pozzo senz'acqua del mio stomaco. Tutto ciò che avrei voluto rimettere non era possibile trovarlo lì. Se solo avessi potuto smascherare il corpo, rivelarmi evanescente e rompere le catene della carne priva di inizio e di fine. La mente era una congerie di emozioni così ingarbugliata da dare l'illusione di logica. Febbricitante, diedi uno sguardo all'orario: ignoravo quando sarebbe partito l'ultimo treno, d'altronde nella mia città natale passava soltanto venti o trenta minuti dopo cena. Quando misi piede nella stazione tirai un flebile sospiro di sollievo nel constatare di non essere la sola anima sul binario. La destinazione non era particolarmente significativa; mentre il treno regionale frenava col suo algido, distaccato rantolo metallico, ero smarrita nel mio riflesso sulla porta della sala d'attesa. Mi venne concessa la grazia, anche per intercessione della dissuetudine, di sentirmi troppo frettolosa per poter timbrare ciò che vi trovai; ad oggi è però cristallino. Se da un lato mi sentivo appiccicare come una mosca in trappola, tanto era il sudiciume che sentivo di trasudare, dall'altra c'era qualcosa di compassionevole come un bambino che si sbuccia un ginocchio cadendo sul cemento. Io ritengo che la commiserazione sia quanto c'è di più umano e degno in un cuore, in tal senso mi permetto di guardare me stessa e trovarvi purezza, seppur pesante e vorticosa. La mia aura per intero mi sussurrava, spogliata e vergognosa, d'aver pietà, d'infrangere il vetro di cui mi ero plasmata. Rimasi in piedi, statuaria, per un paio di minuti, poi cominciai ad aggirarmi per i vagoni quasi del tutto desolati. Arrivando al terzultimo sussultai poiché mi ero accorta della presenza di due ragazzi e altrettante ragazze; i muscoli del mio corpo vennero lubrificati d'eccitazione e impiegai qualche secondo di troppo a realizzare di starli perquisendo con lo sguardo. Incontrai le iridi maschili di uno di loro, che curiosamente avevano la stessa nuance glauca delle mie, e in sincronia ci venne da alzare le sopracciglia, a metà tra indisponenza e disagio. In cuor mio serbavo la speranza che fosse il modo in cui mi trascinavo a sostituire le parole, ma nel corso della mia vita avevo avuto l'ambigua prova di essere una torre di Babele incarnata.

"Puoi aiutarmi?" parlai, voce rarefatta. Mi rivolsi direttamente al ragazzo sopra citato per stabilire un contatto più intimo e personale, sperando di non trovarmi davanti ad un vicolo cieco. La strafottenza e l'egoismo erano lo svezzamento dei soggetti come me, ed era a causa di questa stessa consapevolezza, oltre alla mia mentalità misantropa, a farmi procedere con cautela; in verità, mi stavo frenando dall'inginocchiarmi e baciargli ogni dito dei piedi, recitando i carmi indegni di pianto della mia croce, per guadagnare quella misericordia ch'era il mio pane.

Lui mi scrutò così repentinamente da non registrare con esattezza il misero teatro che gli si era schiantato dinnanzi. "Chi sei? Io non ti conosco."

"Non mi conosci, non ti conosco. Sono Ginevra, è il mio nome, ma puoi aiutarmi?" scandivo telegraficamente le informazioni, per giungere allo spannung del copione "Sto male, ho bisogno..." azzardai a mezza bocca.

Non era tanto la mia possessione smaniosa, né il ragazzo in sé a farmi tentennare, quanto gli occhi brucianti e indecifrabili dei suoi compagni. Chissà se il modo in cui li percepivo coincidevano con il puzzle della realtà, non ero mai stata abile nel leggere chi mi stava intorno.

"Guarda, qui non sei l'unica a sentirti così" gli si storse la bocca con amarezza "C'è la Sabina qua che è messa così da quasi tre giorni."

Il movimento delle sue pupille rese chiaro il collegamento, parlava della ragazza vicino al finestrino, che aveva la musica a palla nelle orecchie e già aveva perso l'interesse nei miei confronti. Conoscere il nome di qualcuno lo deforma impercettibilmente, gli regala un vantaggio nell'eterna corsa per la memoria. Sabina stava fagocitando la pelle attorno alle unghie con voracità, come se avesse potuto sfamare la bestia che era in lei; trovai tristemente incoraggiante che condividessimo l'uno e l'altro vizio.

"Quindi non potete aiutarmi?" insistetti, già con un fallimentare scenario proiettato davanti.

Il ragazzo gesticolò incomprensibilmente. "Se... vuoi stiamo andando in un posto. Dovresti trovare ciò che stai rincorrendo."

Non formulai ulteriori interrogativi, la speranza cocente che le sue parole avevano scatenato mi diede quasi la nausea. "Allora mi aggregherò" e mi sedetti poco distante.

VITREODove le storie prendono vita. Scoprilo ora