Ero lì seduta pensando che forse non siamo poi così complicati come sembriamo. Ci piace pensare di essere indecifrabili, difficili da comprendere, ma in realtà siamo solo noi stessi, e non siamo così bravi come pensiamo a nasconderlo. Persone false dici? Lo mostrano subito. Basta guardare bene.
Le persone sono così facili da leggere, sanguiniamo emozioni anche per il modo in cui beviamo il caffè. Però nessuno sembra accorgersene, siamo tutti troppi occupati a berci il nostro dannato caffè.
E pensavo, senza scrivere, dicevo frasi nella mente che mi dimenticavo subito dopo, come se avessi troppi pensieri che mi fuoriuscivano da tutti i pori. Chissà se qualcuno li catturerà mai come si fa con le lucciole.
E qualcuno lo fece.C'era un ragazzo dall'altra parte del parco, su una panchina esattamente di fronte a me, non vedevo bene il suo viso perché i miei occhiali erano da cambiare. Eppure non distolsi lo sguardo. Stettimo un po' li, non riuscivo nemmeno a capire se lui mi stesse guardando di risposta. Ma alzai la mano come a salutarlo, senza scuoterla, lui la alzò di rimando.
Poi guardai l'ora e andai a prendere il pullman.
La banchina era la numero tre, il pullman si fermò, apri le porte e mi mossi per non perderlo. Partì in anticipo come fosse di fretta, come se non volesse darmi la possibilità di cambiare idea. E così il pullman blu scomparse dalla mia vista.
Tornai sui miei passi, a vedere se il ragazzo era ancora sulla panchina, ma non c'era.
Avevo visto qualcosa che mi ero immaginata, sentito qualcosa che non c'era, e adesso avevo persino perso il pullman per la mia cavolo di mente vogliosa d'amore.
Chissà se c'era un pullman che andava vicino al mio paese.
idiota idiota idiota
Qualcuno mi toccò sulla spalla destra e mi girai verso sinistra, lui sorrideva perché avevo capito il suo giochino. Mi porse una cuffietta senza filo, io feci per parlare ma lui disse: «Prima la cuffietta» così mi misi quella dannata cuffietta e capii. Capii che era come me.
Con la colonna sonora di sottofondo gli sporsi la mano.
«Silvia, mi chiamo Silvia» mi presentai, lui prese la mano e non la scosse.
«Edoardo, mi chiamo Edoardo» rispose.
«Ho perso il pullman» «Non fa niente» «E ora cosa faccio?» «Ora partiamo» disse lui con decisione.
E così partimmo, non sono sicura di essere ancora arrivata, andammo dappertutto e da nessuna parte, con i piedi per terra ma la testa fra le nuvole.Avevamo le dita intrecciate, lui piano mi disegnava dei cerchi con il pollice sul dorso della mano. Ogni singolo secondo sentivo le farfalle nello stomaco, quindi è questo che si sente quando si sta cadendo. Non avrei mai voluto andarmene dal tuo fianco, sentivo il suo profumo, quanto adoro quando le persone profumano. Il suo odore era diverso, sapeva di caldo, di libri, di corse sotto la pioggia, di libertà, di balli lenti e di sapone. Oggi ringrazio il cielo che avesse un odore così unico, altrimenti il mio cuore si spezzerebbe a sentire di nuovo il suo profumo.
«Sai di buono» dissi a un certo punto, perché non ammetterlo?
«Tu sai di quelle scottature che ti prendi solo al mare ad agosto» disse lui, come se ci fosse stato a pensare fino a quel momento.
«Facciamo un patto» dissi convinta.
«Ovvero?»
«Bisogna dirsi tutto ciò che si pensa sinceramente se l'altro lo chiede»
«Va bene»
«A cosa pensi?» chiesi, volevo tanto saperlo.
«Che non vorrei mai scendere da questo treno.» «Perché no?» «Perché non potrò più tenerti la mano come sto facendo ora»
«Allora restiamo finché vuoi» mi fermai un attimo per girarmi verso di lui «dove stiamo andando a proposito?»
«Non lo so, tu dove vuoi andare?»
«Ovunque»
«Ovunque sia.»
Così quando arrivò la fermata noi non scendemmo, ma continuammo ad andare.
Verso dove? Che domande, ovunque naturalmente.