E' la fine di una lunga estate passata in quel buco di città fatta solo di cemento in cui mi ritrovo. Il sole che sembrava dire addio alla stagione, illuminava la mia pelle da vampiro, permettendo alle mie lentiggini di ritornare a vivere ancora per un po'. L'anno precedente avevo sofferto di alcuni disturbi legati alla depressione e non mi sembrava vero sentirmi finalmente tranquilla e serena. In questo devo ammettere che ha avuto un ruolo fondamentale la presenza di Riccardo, la persona che amo. La malinconia del termine di una stagione di serenità si faceva sentire sempre di più e mi sembrava di ricadere nel tunnel degli orrori. Così decisi di prendere aria, mi affacciai alla finestra della mia cameretta e guardai il giardino condominiale che circonda il palazzo. A quel punto ammiro i pini da qualche anno coltivati e ripenso alla me piccina che giocava tra i fiorellini e le bolle di sapone, senza avere un solo pensiero. Il cielo era di un blu limpido incredibile e non ospitava nuvole: un addio perfetto. Così chiaro, da far capire che stava ricominciando un nuovo ciclo e che non era più il momento di rilassarsi e basta. Una parte della visuale della mia finestra, appartiene a un pezzo di marciapiede corrispondente alla via della mia casa, localizzata nel centro storico. La gente passa, cammina, si guarda attorno, va in bici e, nel frattempo, mi chiedevo quante storie esistessero e quanti segreti la gente nascondesse. Proprio in quel momento mi assalgono pensieri invasivi che mi fanno vivere una realtà invisibile agli occhi: prima o poi, dovrà succedermi qualcosa di eccessivamente brutto. Accade a tutti, no? A sostenere questo viaggio mentale, vi era una canzone che stava ascoltando mia sorella Deborah, dall'altra parte della casa e che i miei timpani percepivano fino al davanzale. Un brano di cui non ricordo nemmeno il titolo, ma dove gli strumenti raccontano dolore e nostalgia, con un non so che di "qualcosa che non torna più". Pensai immediatamente a mia mamma e iniziai ad angosciarmi. C'era un motivo preciso per cui pensavo a lei. Era da mesi che era cambiata ancora di più. Io e i miei fratelli temevamo che soffrisse di depressione. Non parlava, non svolgeva più i lavori di casa, non usciva, indossava magliette a maniche lunghe con un caldo tremendo, aveva dolori ovunque e tossiva che sembrava ogni volta che stesse per sputare un polmone. Fumava davvero troppo in quel periodo, sicuramente era per quello, pensai. Ma si stava trascurando, si stava facendo divorare da qualcosa che non riuscivamo a vedere e questo era straziante. Mi spostai dalla finestra e interdetta mi sedetti sul letto a pensare a come aiutarla. Mi diressi verso la camera dei miei genitori, dove sapevo che era mia mamma. Come entrai, non potevo non notare il buio che per la prima volta distingueva quella stanza dalle altre dell'appartamento. Guardai il letto, dov'era seduta Lei con lo sguardo fisso verso il vuoto. Indossava un maglioncino nero e grigio, come la ricrescita dei suoi capelli che non voleva sistemare. Mi sembrava di non riconoscerla più. "Tutto bene, mamma?". Con gli occhi un po' lucidi, mi guardò, annuì e ritornò al suo vuoto. Il giorno dopo presi subito in parte Deborah per una chiacchierata ben mirata: "Come possiamo aiutarla?" "Non vuole curarsi quella tosse, la dottoressa dice che c'è un farmaco molto efficace ma non ne vuole sapere, in quanto ritiene che la fa tossire ancora di più". Spalancai gli occhi e arrossii "ma quello è l'effetto del farmaco" e mia sorella replicò nervosa "Certo che è l'effetto del farmaco, è quello che le ho detto anche io". Gli attimi di silenzi diventarono mille e diversi fra loro: alcuni imbarazzanti, altri disperati. "Cosa pensi che abbia? Dimmi la verità" domandai a mia sorella e lei, laureata in Psicologia, mi rispose "è palesemente depressa". La sua risposta, però, non era così trasparente come speravo: sotto vi erano altre preoccupazioni di cui non voleva parlare, o a cui non voleva credere. Così arrivò l'idea di discuterci con calma, nella speranza che non si incazzasse come ogni volta. Dopo pranzo del giorno seguente, Andrea si spostò in soggiorno mentre noi decidemmo di rimanere con lei in cucina. Si sentiva una tensione che legava saldamente tutte e tre, come se ci fosse stata una bomba pronta ad esplodere ai nostri piedi. Prese una sigaretta dal suo pacchetto e se l'accese, guardando la bacheca di Facebook sul suo cellulare. Mi rivolsi con lo sguardo a mia sorella, la cui espressione chiedeva chiaramente aiuto. Allora decisi di iniziare: "Mamma, in questi ultimi tempi ti vediamo molto giù. Non ti vogliamo giudicare, è che siamo tutti preoccupati per te" tentenno, poi continuo "Anche papà lo è. Cosa succede? Noi non capiamo. Cosa ne pensi di una visita dallo psicologo? Potrebbe davvero aiutarti", subito intervenne agitata mia sorella "Sì e non devi vergognarti di nulla. Vedrai quanto starai meglio. Poi pensiamo anche a mandarti dalla parrucchiera, così ritorni ad essere tutta bionda come piace a te". Mamma stava in silenzio, bloccata; sentivo la tachicardia di mia sorella fino al mio posto a tavola. Alzò lo sguardo e mi impressionarono i suoi occhi: spenti, immobili, freddi. Accennò un sorriso quasi per darci il contentino, il più falso mai visto. "Avete ragione, ci andrò". Io e mia sorella sembravamo le persone più felici al mondo. "Ci ha davvero dato ragione per una volta?", ci chiedemmo. Insomma, abbiamo pensato allo psicologo perché nella sua vita ha subito tanta sofferenza non meritata. La perdita di un padre, l'odio ingiustificato di una suocera, un grave periodo di crisi economica dovuta alla perdita del lavoro di mio papà, una mamma che ha affrontato e vinto un tumore. Tutto questo senza mai parlarne con nessuno. Si è sempre tenuta tutto dentro, con grande mistero. Lo stress che ha accumulato, spesso lo faceva ricadere su di noi con litigi e insulti e quando succedeva, provavo infinita tristezza. Proprio qualche giorno dopo ha luogo un battibecco, causato dal non averla aiutata nello sparecchiare la tavola. Per farci perdonare, io e Deborah ci recammo in un negozio di abbigliamento con lo scopo di comprarle un regalo. Quello scelto fu una maglietta nera casual, decisamente nel suo stile: un po' larga, da abbinare con tutto, seppur non dei migliori tessuti. "Sarà felicissima" dissi a Debby sorridendo. Ed effettivamente, quando gliela abbiamo data in mano, ha sorriso davvero. Ma i suoi occhi, continuavano a dire altro.
Nel frattempo mi trovai con la mia dolce metà, che mi chiese quanto fossi felice di ritornare tra i banchi di scuola e affrontare la terza superiore. Ovviamente non lo ero. Decido di esporre le mie ansie e Riccardo, come al solito, mi consola spiegandomi che andava tutto bene e che fosse evidente che era la sua mente ad essere malata e che fosse assolutamente capibile. Mi convinsi di questa teoria, più che plausibile. Ogni giorno, però, la vedevo sempre peggio: non riusciva a stare troppo in piedi per la schiena, tossiva continuamente e stava sempre a letto. Un bel giorno intervengo, quasi arrabbiata "Mamma, ma allora lo psicologo? Vuoi che prenoti io?". A questa domanda, mi rispose con tono leggermente scontroso "Non ci sono soldi in questo momento, vado il prossimo mese". Insomma, le carte in tavola stavano già cambiando e il clima in casa diventava sempre più negativo. Accettai con amarezza la sua risposta, in quanto non prevedeva repliche. E così ebbe inizio la fine.
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Monique
General FictionTRATTO DA UNA STORIA VERA. Monica, chiamata ironicamente Monique, è una madre di tre figli per cui darebbe la propria vita. Gentile e di buon animo, ma anche introversa, fredda e distaccata da chiunque. Spesso anche problematica e misteriosa, finché...