Maledetto Marzo

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Siamo ormai agli albori del mese di Marzo, un mese che fa presagire rinascita, vita, cambiamento. Quel mese per noi non fu così. Da ormai febbraio, mamma aveva iniziato a rifiutare il cibo. Mangiava saltuariamente e il suo corpo continuava a sparire sempre di più. Iniziammo una vera e propria campagna nei suoi confronti, con l'obiettivo di convincerla ad andare a farsi una visita di controllo. Sì perché, dovete sapere, mamma è sempre stata una che "non ha bisogno di andare del medico". Ogni problema fisico lo risolveva a modo suo. Giusto o sbagliato che fosse, lei era così e non c'era nulla da fare. Addirittura si comportava come se non avesse avuto nulla. Una volta, quando io ero piccolina, ebbe la febbre a 39. Era palesemente stanca e debole, ma agiva come se fosse in piena salute. Lei non ha mai avuto bisogno di aiuto e non si è mai lamentata del dolore. Preferiva stare in silenzio, ad aspettare che quest'ultimo se ne andasse. Inutile dire che quella volta fu diverso. Capimmo, infatti, che non c'era solo la depressione di mezzo. "Mamma, ti prego, fatti una visita" - nessuna risposta. I miei zii, mia nonna, i miei fratelli e mio padre, che ogni giorno se ne inventavano una più del diavolo per portarla ad eseguire dei controlli. Lei non ne voleva sapere, aveva chiaramente profondo timore dell'eventuale esito. Ma che esito? Cosa nascondeva il suo corpo e la sua mente? Iniziò a mentire su tutto. Ogni qualvolta le chiedessimo se avesse mangiato, ci confermava di aver consumato un pasto specifico, quando alcuni di noi fungevano da veri e propri testimoni, pronti a confutare la sua affermazione fasulla. Una bugia dietro l'altra. La mia rabbia nei suoi confronti non faceva altro che aumentare. Perché una mamma dovrebbe farci una cosa del genere? Lo dico onestamente: si stava lasciando morire. Almeno questo era quello che mostrava. Non reagiva a nessuno stimolo. Nemmeno i dolcissimi occhioni ambrati della nostra cagnolina Dafne riuscivano ad impietosirla. Era un'altra persona, una persona ormai morta ma che ancora non lo sapeva. L'atmosfera in casa era inspiegabile: dolorosa, inquieta, nervosa. Si litigava tutti i giorni e ci si portava dietro il peso di una madre che stava scomparendo e noi non ne capivamo il vero motivo e ciò era straziante. Era una situazione così surreale, dai colori di un film di Tim Burton. La nostra dottoressa di famiglia, ci spiegò che non potevamo assolutamente obbligarla a sottoporla anche a solo una visita. Una cosa la voleva, però: il gelato, sempre. Avrebbe mangiato chili e chili di gelato. La disperazione me ne faceva prendere quasi uno al giorno, purché mangiasse qualcosa. Non usciva più, nemmeno a prendere qualche pezzo di pane. Non parlava più, con nessuno. Ma la sigaretta fra le sue dita, quella no, non mancava mai. La sua compagna inseparabile, di cui aveva bisogno fino all'ultimo tiro, fino all'ultima ''scenerata". Noi fratelli stavamo provando davvero un'afflizione che non ci lasciava più vivere. La nostra vita era ormai un composto di ansia e paura, tristezza e rabbia. E quello che ci faceva mandare ancora di più fuori di testa, era che non potevamo fare nulla per cambiare la situazione. Non avevamo potere. Tutto ciò era assurdo, vero? Ne parlavo continuamente con Riccardo, ma lui continuava ad essere ottimista e questo mi uccideva ancora di più, perché ero consapevole che l'ottimismo, in questo caso, non serviva a nulla. Un giorno mio padre mandò un audio a Deborah su WhatsApp: "Deborah.. cosa devo fare? Non so più come aiutarla". Papà non è mai stato uno che con noi si confessava, anzi. Il cinismo è un po' di famiglia. La sua allegria si faceva viva soprattutto con ospiti: si contraddistingue per la simpatia, l'ironia e anche per la sua pazzia. Ha tutt'ora il difetto di brontolare costantemente, dettaglio che ha sempre urtato Monique. "Questo è l'audio che mi ha appena mandato" iniziò a spiegarmi Deborah, poi continuò con uno sguardo di sconforto "non so più cosa pensare". Che fosse stata la fine? Come posso immaginarmi una fine? 

Ero ancora in terza superiore e ricordo perfettamente quel giorno. Arrivai a casa da scuola e trovai il mio piatto caldo pronto, come al solito. Ma solo il mio. Mamma non toccò una briciola di cibo. Proprio quel giorno, quando un pomeriggio di metà marzo ero seduta sula sedia del mio salotto mentre, sul tavolo di vetro, stavo svolgendo per modo di dire i compiti di tedesco. Non ci capivo assolutamente nulla. Quindi diciamo che io e Google Translate stavamo facendo i compiti di tedesco. Mamma era sdraiata sul divano a fissare, come sempre, il soffitto. Nel mentre si arrotolava un ciuffo di capelli, come da routine. In quel momento di silenzio arrivò mia zia Sara, che abita tutt'ora sopra il nostro appartamento. Vedendola dimagrita in maniera drastica, entrò affiatata per dirle che le aveva prenotato una visita dalla dietologa. Sì, signori: questa è la disperazione. Sentendo quelle parole il mio sguardo svanì nell'aria, non riesco a spiegarvi la sensazione. Era una consapevolezza troppo amara per la mia coscienza. Mamma rimase zitta. "Hai mangiato oggi?" chiese zia a Monique "Sì", secca e fredda, immediata risposta. "Cos'hai mangiato?" "Due uova all'occhio di bue e un po' di pane". Alzai il viso e iniziai a fissarla. Pensai "Ma cosa cazzo stai dicendo?". Già, nulla di tutto ciò era vero. Era solo un'infinità di balle, su balle, su balle, di cui nessuno ne poteva più. Ammetto di non aver avuto il coraggio di intervenire, per paura che si beccasse parole da mia zia, il che l'avrebbe soltanto abbattuta ancora di più. Ma in realtà, le parole se le è prese comunque. Da me. Forse ho sbagliato? Non so se rimpiangere quel momento o meno. Ho fatto bene o ho fatto male? Aveva solo bisogno di comprensione? Quando zia girò i tacchi e se ne andò, posai la matita sull'eserciziario di tedesco e la guardai con chiara disapprovazione. "Hai mentito di nuovo, non hai mangiato nulla" - silenzio. Nessun riscontro. "Pensi di andare avanti così? Sul serio? Lo capisci che ci stai facendo morire di paura?" - silenzio. Nessun riscontro. "Voglio dire, perché non mangi? Puoi dirmi qual è il problema? - silenzio. Nessun riscontro. Sospirai e mi calmai due secondi. "Mangia, per favore. E fatti vedere" girò lentamente lo sguardo verso di me. Ma ancora silenzio, nessun riscontro. Ora immaginate una figlia di soli 17 anni che vive quest'incubo, dove sua mamma si sta lasciando andare per non si sa quale motivo e, addirittura, non apre più bocca su nulla. Davvero, a cosa si può pensare in una situazione così disagiata? E voglio, pretendo, veramente che ve lo chiediate.

Qualche giorno dopo e ancora oggi non so come sia accaduto, è finalmente ceduta. Si è lasciata andare alle mani di chi le voleva veramente bene. Con un'impegnativa d'urgenza della dottoressa, è corsa insieme a papà e zia a farsi dei raggi, per capire se poteva esserci qualche problema agli organi. Insomma, per togliersi ogni dubbio. Io sapevo che non c'entrava assolutamente nulla la salute fisica, se non come conseguenza di quella mentale, la quale ormai non poteva nemmeno essere più considerata "salute". Non che fossi più tranquilla, anzi, in passato avevo avuto modo di avere almeno un piccolo assaggio di cosa significa depressione. Dunque no, non ero per niente calma. I risultati li avrebbe avuto il giorno dopo e ricordo bene che quel giorno avevo la verifica di spagnolo. Ho sempre tenuto molto alla scuola e non sapevo più dove concentrarmi. Giuro che ero davvero positiva per lei. Tutto quello che mi viene in mente è che continuavo a dire a Riccardo, Anna la mia migliore amica e Debby: "Se dai risultati si scopre che va tutto bene, bevo tutto il giorno fino ad ubriacarmi" e loro mi sostenevano in questa mia impresa. Peccato che quel giorno non ho bevuto nemmeno una goccia di alcol. Arriva la giornata fatidica, dove avrei saputo il destino della mia vita da quel momento, ma sicuramente non quello di mamma. Finii la verifica in anticipo, così chiesi alla prof se potevo usare il cellulare per importanti motivi di famiglia. L'ansia che avevo dentro era qualcosa di davvero tremendo. Scrissi subito a mia sorella "Allora?" "Ancora niente".  Mani sudate, gambe tremolanti, pensiero fisso. Una volta tornata a casa, il pranzo sì, era pronto, ma non da mamma. Il clima in casa era agonizzante: la pelle mia e della mia famiglia trasudava angoscia, terrore e uno strano senso di "fine". Subito dopo pranzo avevo bisogno di vedere Riccardo, così nel bar vicino a casa mia ci trovammo per un caffè al volo. Era una giornata davvero splendida: il sole illuminava allegro anche le foglie più piccole, il cielo era di un blu incredibile. Non mancava il freddo che ci immobilizzava, ma era l'inizio di qualcosa di nuovo. Queste condizioni mi facevano capire che sarebbe andato tutto bene. Allo stesso tempo mi sentivo afflitta da una strana sensazione di malinconia e nostalgia, come se qualcosa stesse per essermi portato via. Una volta seduti, ordinammo un caffè liscio per lui e uno macchiato per me.  Gli stavo spiegando l'ansia che stavo provando in questa situazione e continuavo a ripetergli "Se va tutto bene, io mi ubriaco" e lui mi rispondeva "Ovvio amore".  La sua mano teneva la mia, cercando di tranquillizzarmi il più possibile. La paura piano piano scemava. Qualche sorriso un po' finto e un po' vero, mentre la mia mente pensava "ti pare che debba andare male proprio a te?". Ancora nessuna notizia quando, proprio mentre stavamo parlando di altro e non ci pensavo più, arrivò un messaggio da mia sorella. "Le hanno trovato una macchia nel polmone, che sarebbe acqua". Io, 17 anni, non sapevo minimamente di cosa stava parlando. Girai lo schermo a Riccardo, con occhi spalancati. Lesse il messaggio e cercò di rassicurarmi "Ah, acqua nel polmone! Tranquilla amore può capitare, è successo anche ad un amico di mia mamma ma non aveva nulla di particolare". Rimasi qualche attimo in silenzio a fissarlo attonita e gli dissi "Vista la situazione, temo che non sia nulla di grave". Un'altra notifica illuminò lo schermo del mio cellulare. Abbassammo i nostri volti contemporaneamente, con lo scopo di leggere "Vieni a salutarla, dobbiamo ricoverarla d'urgenza". Lacrime, lacrime, soltanto un fiume di lacrime improvviso. Non sapevo davvero cosa pensare. In velocità Riccardo pagò i due caffè e mi accompagnò di corsa a casa. "Vuoi he rimanga con te?" "No, vai pure, grazie". Entrai in casa con una paura pazzesca di vedere cosa stava succedendo. Mia zia, mia sorella e mio papà giravano per la casa a raccogliere gli oggetti e gli indumenti utili da portare in ospedale e da sistemare nel suo borsone. Lei non cambiò posizione. Lei con quella ricrescita grigia di capelli e le punte bionde, con il suo solito maglione lungo e caldo, grigio come ormai la sua vita. Seduta a fissare sempre quel suo vuoto tanto amico, con gli occhi lucidi. Decisi di sedermi vicino a lei e abbracciarla. Mi guardò con quegli occhioni  pieni di richieste di aiuto e parlò "Ho tanta paura" mi disse, spiaccicando un sorriso amaro come dire "Che fine farò?".  Non mi aspettavo che parlasse, non lo faceva da giorni ormai. Ero quasi scombussolata nel sentire la sua voce che per la prima volta in vita esprimeva delle emozioni. Stavo per ritirarmi perché sì, ero spaventata e molto. Ma mi feci forza perché lei ne aveva un bisogno estremo. "Andrà bene, mamma! Sono cose che succedono, credimi, tornerai a casa presto". E per un mese intero, quella fu l'ultima nostra conversazione dentro quella casa. Nulla andò bene.

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