Capitolo 3

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It’s my fate
Don’t smile to me
Light on me
Because I can’t get closer to you
There’s no name you can call me

🎵 The truth untold, BTS


Nei giorni successivi al trasferimento, Min-so mi accompagnò a visitare la sua università, dove oltre ai corsi di medicina tenevano anche lezioni di architettura, il mio campo.

Il campus era splendido, niente di ciò a cui ero abituata in Italia. Intorno a noi c'era tantissimo verde a circondare i tre plessi principali, ognuno alto all'incirca dieci piani. Mi sembrava un posto incredibilmente grande per dei semplici studenti universitari, ma è anche vero che le proporzioni di Seoul sono decisamente diverse da quelle di qualunque città italiana.

Ci sedemmo a un bar appena fuori il campus, subito dopo aver portato a termine la mia iscrizione e aver ritirato il mio orario. Avrei cominciato subito dopo le vacanze di Natale ed ero già in fibrillazione. Fortunatamente mi avevano convalidato i primi due anni frequentati in Italia, per cui avrei dovuto sostenerne solo un ultimo prima della laurea.

«È tutto molto grande qui. Vederlo da turista un paio di volte l'anno è abbastanza diverso» diedi voce ai miei pensieri, mentre Min-so passava in rassegna con lo sguardo il menù.

«Ti abituerai in fretta, lo so. Hai sempre avuto un forte spirito di conservazione.»

Sicuramente alludeva al mio passato liceale piuttosto turbolento. Pur vivendo in città separate, con un terribile fuso orario di mezzo, non avevamo mai smesso di sentirci, videochiamarci, aggiornarci.

Sapeva tutto dei miei cinque anni infernali di liceo. Ero capitata in una classe di sole ragazze, dove il bullismo era praticamente all'ordine del giorno.

«Che brutto che è quel maglione.»

«Ma hai i capelli sporchi?»

«E lavati che puzzi.»

Il problema è che l'invidia è una brutta bestia. Avrò sicuramente avuto modi discutibili di vestire all'epoca, ma che puzzassi o che non mi lavassi, questo assolutamente no.

La cosa, però, è continuata per anni. Non mi ha mai aiutata nessuno, nemmeno i prof, così ho dovuto tirare fuori il carattere e vedermela da sola, vincendo la maggior parte delle mie battaglie senza mai dire nulla ai miei genitori. Mio padre mi avrebbe sicuramente ricordato quanto fosse importante dimostrare dicessere più forti, lasciandomi comunque a cavarmela da sola.

Min-so aveva avuto un'esperienza migliore della mia, abbastanza nella media, con qualche secchione qua e qualche sfaticato là a popolare la classe. Mai niente di più.

Così per cinque anni era stata costretta a sorbire le mie lamentele.

Ora però era tutto diverso, in Corea c'era anche una cultura diversa, il modo di vivere era diverso, e questo mi rassicurava. Era un tipo di vita che mi si cuciva molto meglio addosso.

«Mi sembra ancora un sogno, vivere qui» le rivelai, subito dopo aver preso le nostre ordinazioni.

Min-so tamburellava con le dita sul tavolo. Io, invece, non potei fare a meno di guardarmi intorno.

Il bancone su un lato del locale era pieno di gente e dietro di esso la parete era ricoperte di bottiglie, drink e bicchieri puliti. Il resto del pub ospitava tavoli di tutte le dimensioni, mentre i colori scuri che ci circondavano sembravano quasi rendere l'ambiente più piccolo e accogliente.

La cosa che notai a primo impatto furono le scritte al neon appese di qua e di là lungo i muri. I coreani amano il neon, lo mettono dappertutto.

«A chi lo dici, hai idea di come abbia fatto a sopportare ventun'anni di vita senza di te qui in pianta stabile?»

Break the silence - and fly like a butterflyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora