Overture

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Bologna, 29 settembre 1773

Un incredibile peso mi divora l'anima. Riconosco quel fardello familiare, portato sulle spalle, sul petto, da tutta una vita. La solitudine, il senso di mancata realizzazione che, pure, avevo avuto. Ma no, non sono completo, non del tutto. Lo ero stato per un brevissimo tempo della mia vita, che ormai non ricordavo, non riconoscevo più.
Qui, nella penombra della mia casa, nella mia poltrona, abbandonato da tutti, ripercorro incessantemente gli anni passati sul palco e poi quelli al servizio dei reali. Inevitabilmente mi chiedo come sarebbero andate le cose se non avessi mai accettato, se avessi desistito prima, ma struggersi su questi pensieri non servirà a nulla, non mi riporterà nulla. Bologna, ora che sono vecchio, mi pare fin troppo calma e la mia bella dimora, che ho riempito delle più belle opere d'arte, che ho fatto decorare secondo mio gusto, alla maniera fine e delicata della villa di Aranjuez. La nebbia che vedo spesso ammantare i colli, al contrario, non ricorda minimamente il clima spagnolo, quello a cui mi sono abituato in questa mia ultima parte di vita; semmai, ecco, ha il sentore di Londra.
È in questi corridoi, che attraverso ogni mattina, che mi pare di sentire ancora qualche applauso, voci amiche, ormai perdute. Amiche - sfortunatamente, ancora presenti - sono ancora le terribili emicranie, e il mal di stomaco[1]. Trovo comunque, ancora adesso, conforto nei dolci, che mi accompagnano da quando sono piccolo. Preferisco tutt'ora quelli napoletani e ho la fortuna di potermeli fare consegnare anche dove risiedo ora, da una pasticceria nel centro città. Mi sento ancor più vecchio, qui a dettare della mia vita, dei miei pensieri: non lo si fa, forse, quando ci si aspetta di lasciare questo mondo da un momento all'altro? Eppure, il mio viso, lo vedo allo specchio, a parte qualche ruga, sembra ancora fresco e giovane, i capelli sono ancora neri, fatta eccezione per alcune ciocche ingrigite qui e là, che mi premuro di nascondere sotto i ricci più neri; ho anche bisogno di un bastone per camminare, a causa dei dolori alle ossa, ma per questo posso fare ben poco.
Che stupido sono, qui a lagnarmi quando molti altri invidierebbero la mia vita! Non l'auguro a nessuno, ma, questo è certo, non posso lamentarmi degli agi in cui ho vissuto ed ancora vivo: le ricchezze accumulate mi permettono di vivere una vita ritirata nella più completa pace e con tutto ciò di cui ho bisogno, se non di più. Le tabacchiere in argento[2], per esempio, non so nemmeno perché io le abbia ancora: mi rendono malinconico e nemmeno fumo, ma si tratta comunque di simboli, simboli di una vita dedicata totalmente al canto, simboli del riconoscimento da parte di questo o quel re, di una regina piuttosto che un'altra. Mi chiedo, magari, se come il mio vecchio amico Majorano[3], non sarebbe stato meglio, per me, essere più sfacciato e chiedere, al posto di queste inutili scatoline, magari un anello o una bella collana.
Sto divagando. Ma è più facile quando si tratta di un monologo, quando non si ha a che fare con donne e uomini che pendono dalle tue labbra e chiedono "ancora, ancora!", come tu fossi una fontana zampillante e loro assetati appena usciti dal deserto. Non ne hanno mai abbastanza, anzi, non ne avevano mai abbastanza, perché la nostra razza, quella dei castrati, si sta lentamente estinguendo. Devo ammettere di essere felice nell'apprenderlo: niente più bambini venduti per denaro, niente più vite a metà, niente più ragazzini moribondi per strada a causa della loro voce non ritenuta adatta[4]. Si avvicina una nuova era per la musica, per l'arte, che contempla uomini e donne sul palco, dove è proprio il gentil sesso a comandare, a burlarsi del poveretto di turno. L'opera seria è sempre più in declino e ora è il tempo del buffo: le persone non vogliono più commuoversi, ma ridere, ridere a crepapelle e godere per qualche momento della sventura - per molti familiare - messa in scena[5].
Devo smetterla, però, di lasciarmi andare a queste elucubrazioni, poiché il motivo per il quale ho deciso di mettere su carta queste parole non è elogiare la venuta di una nuova era nelle arti o disprezzare questa casa troppo grande: no, il mio intento è quello di raccontare parte di una storia, la mia, che fino ad ora è stata taciuta. Io, di comune accordo con gli altri protagonisti che l'hanno popolata, abbiamo deciso così, per salvaguardare quel poco di privato che di me era rimasto. Scelta egoista, da parte mia, ma volli esserlo, tanto tempo fa, fino ad oggi, per raggiungere quella piccola parte di felicità che ha illuminato la mia vita. Non me ne pento, perché quella luce è stata la mia salvezza, non mi vergogno ad ammetterlo.

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