Capitolo 1

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        Sugli scalini di un palazzo, immerso nella lieta contea di Gilenave, sedeva una fanciulla accecata dalla giovinezza. Gli occhi sgranati e brillanti alla vista del fratello al trotto del suo cavallo, le labbra aperte in un luminoso sorriso; pareva persa nella completa innocenza, senza la minima consapevolezza di come fosse fatto il mondo al di fuori di quelle mura in cui da sempre abitava. “Beato chi vive senza sapere”, si sente dire spesso, e da un lato penso che non faccia una piega. Dall’altro, invece, chi vive nell’ignoranza di ciò che è accaduto e sta accadendo può essere più facilmente manipolato da chi ha il potere di approfittarne. Quella ragazza, però, era tutto tranne che ignorante: studiava molto, e la famiglia aveva grande interesse nel farle ricevere l’educazione più accurata che potessero mai darle, così da renderla la miglior contessa che Gilenave avesse mai desiderato. Tuttavia non voleva; la maggior parte di ciò che faceva dentro quel palazzo la faceva sotto costrizione. Non le piaceva studiare. Se solo avesse potuto, avrebbe reso approssimativamente lo studio di quelle tre o quattro materie a cui ogni giorno era sottoposta. Certo, a lei piaceva mostrare di sapere qualcosa in più, provava gusto a fare riflessioni intelligenti e mostrarsi superiore ai suoi fratelli, ma desiderava altro: voleva vivere avventure, spensierata, in libertà, e per farlo anche solo per un minuto stava con suo fratello. Philippe - questo era il suo nome - era il solo che poteva farla sentire a casa, il suo unico amico, senza contare se stessa. Insieme facevano di tutto, sfruttavano ogni secondo del tempo che avevano: andavano a cavallo, giravano il paese, si raccontavano ciò che passava loro per la testa, spesso una storia; un mondo di storie, quelle che lei aveva sempre amato tanto. Gli ultimi petali dell’adolescenza iniziavano a staccarsi, prossimi a cadere, ma lei raccoglieva ancora i frutti dell'infanzia. Un’infanzia “segreta”, che poteva vivere soltanto se al di fuori di quelle mura luccicanti, che, abbagliandola, non le permettevano di vedere altro che la sua ombra sui libri impolverati di sapienza. Quando finiva di studiare e Philippe non era in casa, però, si stendeva sul suo letto e passava il tempo a scrivere le più fantasiose delle storie. Suo fratello le diceva sempre che era molto dotata e che avrebbe dovuto farne una professione, ma lei rispondeva sempre allo stesso modo: “Ho altri programmi”. Era così, infatti. Lei desiderava essere una guerriera, una paladina della giustizia, voleva fare del suo paese il posto migliore in cui vivere. Evangeline, così si chiamava.
        Philippe fece rallentare il passo al suo cavallo e si avvicinò alla sorella guardandola dall’alto negli occhi: cogliere nel suo sguardo iridescente una tale spensieratezza e sapere che fosse causata da lui lo faceva commuovere ogni volta, anche se, per non rovinare il momento, non lo dava mai troppo a vedere. I suoi occhi color ambra spiccavano sulle mura spente e scure del castello, mentre la luce del primo pomeriggio non poteva che accompagnare. «Stai diventando davvero bravo, Phil! E tu sei sempre perfetta.» affermò la ragazza sorridente, rivolgendosi a Céline, la cavalla di suo fratello, con una carezza sul suo muso allungato. Philippe le fece un cenno di ringraziamento con la testa, sorridendo, quando dall’interno del palazzo si udì una voce femminile gridare, in un tono piuttosto seccato e frettoloso: «Signorina Silversun, la attendono nella sala del trono!» Ed Evangeline, con un’espressione di rassegnazione e rammarico, salutò Philippe per poi esibirsi in un piccolo inchino scherzoso. Lui le fece una carezza sulla testa e la salutò con un affettuoso gesto della mano.
        La ragazza salì la scalinata che conduceva all’interno del palazzo e percorse, con gli occhi fissi nel vuoto, quella medesima, angosciante distanza che la separava dalla sala del trono. A dir la verità, se fosse stato per lei, l’avrebbe meglio definita una sala delle torture: non c’era stata neanche una volta che vi fosse entrata senza ricevere cattive novelle, biasimi, punizioni o ulteriori compiti da dover svolgere. Lungo la strada pareva arrancare, e i suoi occhi, prima brillanti e carichi fino all’orlo di speranze, ora si mimetizzavano con le mura scure e opprimenti attorno a lei, che minacciavano silenti di avvolgerla, stringerla nelle loro spire, e semplicemente aspettare che soffocasse. Il suo viso parve perdere ogni suo vital colore quando, davanti a lei, apparve imponente l’ingresso tanto temuto alla stanza che cercava, ma che non avrebbe voluto trovare. Spinse giù per la gola il malloppo di tormenti: ora non potevano più soffocarla, ma si stavano pian piano insinuando nel suo corpo, nel suo sangue, nel suo cuore, e avrebbero continuato fino a consumarle tutta l’anima, il che era indubbiamente peggio. Con un movimento leggiadro della mano tremolante, scansò la tenda perché potesse entrare. Era rossa, spessa e pesante, ricordava fin troppo un sipario. Evangeline avrebbe trovato la similitudine più che azzeccata. Lo scintillio dell’oro, la sontuosità dell’arredamento, i sorrisi dei suoi genitori: nulla sapeva annebbiare la vista e oscurare la realtà meglio di loro. Conte e contessa di Gilenave, Horace e Audrey Silversun sedevano, stoici e perfetti, sui loro troni; la ragazza faticava a nascondere quanto avrebbe voluto strappare loro dal volto quelle maschere di cartapesta e gettarle al divampare del fuoco. Non sarebbe rimasta in quella stanza un minuto più del necessario, perciò evitò di esibirsi nell’inchino previsto e passò subito al  dunque, in tono chiaramente distaccato. «Come mai mi avete fatta chiamare?» Come succedeva la maggior parte delle volte, fu Audrey a prendere la situazione per i lacci, e si schiarì la voce, lanciando un’occhiata fugace d’intesa a suo marito. «Evangeline, tu sai che tuo fratello sta per diventare cavaliere, vero?» La ragazza annuì, gli occhi offuscati da un velo di rammarico. Sua madre allora continuò: «E tu sei la più grande tra i tuoi fratelli e sorelle.» L’altra, non capendo il punto della situazione, rispose con un semplice e flebile “sì”, attorcigliandosi, come suo solito, una ciocca di capelli attorno al dito indice. Audrey sospirò. «Abbiamo l’obbligo di garantire alla contea un nuovo erede, e tra non molto compirai la maggiore età. La tua incoronazione si terrà l’esatto giorno del tuo compleanno.» Evangeline impallidì, ancora più di prima, e tentò immediatamente di dire la sua in merito, ma la contessa con la lasciò aprire bocca, e si alzò dalla sua postazione, con aria severa. aveva il portamento di una colonna corinzia e l’eleganza di una scultura classica, ma la ragazza avrebbe definito blasfemia identificarla con un’opera d’arte. Alzò la voce, così che le sue parole risuonassero come legge. «Se non accetti, sai già cosa ti spetta. Non potrai mai essere altro.» Detto questo, si voltò, senza dare a sua figlia possibilità di esprimersi. Si chiuse alle spalle la pesante tenda magenta che apriva sul retro della sala, e fece cenno a Horace di fare altrettanto. Questo non degnò sua figlia neanche di uno sguardo e  seguì, a testa bassa, sua moglie, lasciando Evangeline completamente sola al centro della stanza. Il suo sguardo, prima incredulo, si fece cupo, e, con mille parole lasciate sospese, uscì e ripercorse la strada che l’avrebbe condotta all’uscita. Iniziò a scendere gli scalini. Un primo passo, un pensiero, lo aveva capito: nessuno poteva decidere chi essere in quel mondo.

Ciò che mi disse il SilenzioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora