PARTE 1

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Pioveva. Strati di nuvole cupe che avanzavano dall'orizzonte, cristalli che cadendo si infrangevano a terra. L'aria gelida, penetrante, i rumori della città soffocati. Il colore che predominava era il grigio, il grigio spento della nebbia, la neutralità, la monotonia, l'assenza di emozioni, l'insofferenza, la nausea. L'odore terroso e pungente causato dallo scroscio d'acqua. Zelda sapeva che si chiama petricor, ed è creato dai batteri che si sollevano dal suolo per l'impatto delle gocce di pioggia sulle superfici. Zelda amava la pioggia. Le piaceva posizionarsi davanti alla finestra della sua stanza quando pioveva, e a volte scriveva, a volte leggeva. Le piaceva bere la cioccolata calda, bollente, ed osservare le goccioline scorrere sul vetro. A volte optava per un po' di musica come sottofondo, sceglieva le canzoni da ascoltare in base a ciò che scriveva o leggeva. Altre volte, invece, diventava un tutt'uno con la natura. Prestava attenzione a ciò che le piante, gli uccelli, il vento le sussurravano. E non era sempre facile, trovandosi in una metropoli e abitando in uno degli edifici più alti. Zelda amava la tecnologia, e si domandava cosa avrebbe fatto senza questa. Zelda amava anche la pioggia.

In quel giorno però c'era qualcosa di insolito, inconsueto, addirittura discrepante. Qualcosa di troppo, una sbavatura, una corda stonata. Zelda odiava le dissonanze. Odiava andare fuori schema, odiava l'inaspettato. Le faceva paura. Era una di quelle persone meticolose, concrete, e nonostante l'amore per le poesie, rimaneva con i piedi per terra. Non che ripugnasse i sogni, le speranze, i desideri, niente di tutto ciò. Al contrario, adorava fantasticare, ma nei limiti del possibile. Non avrebbe mai provato a sdrammatizzare in una situazione seria. Questo no, lo odiava. Come odiava le emozioni negative. E l'inaspettato.

E quello che tanto odiava ora lo sentiva nell'aria; poteva percepirlo, quasi toccarlo. Aveva lo stomaco in subbuglio, capovolto. Le mani bagnate -e non per la pioggia. Stava sudando freddo nonostante avesse caldo. Il sangue faceva capriole nelle sue vene. Le sue gambe tremavano, più avanzava, più si convinceva del fatto che queste si sarebbero spezzate sotto il suo peso. Quel grigio che torreggiava su tutto si era infiltrato nella sua mente, annebbiando la sua vista. Zelda vedeva bene davanti a sé, ma si era smarrita, aveva perso l'orientamento. Sapeva dove si stava recando, ma non si ricordava affatto di quella strada, malgrado l'avesse percorsa quasi tutti i giorni in questi ultimi mesi. Quegli ultimi mesi meravigliosi, che sapevano di primavera, intrisi di spensieratezza, tranquillità, libertà.

Ora invece aveva il fiatone, l'inquietudine non la faceva respirare bene, bloccava la sua gola in una morsa stretta. Non voleva correre, non aveva le forze per farlo, e sarebbe potuta scivolare. Ma non stava neanche camminando. I suoi passi superavano di gran lunga le gambe, per questo era instabile. E questo lo odiava, era come essere in piedi su una corda traballante, con sotto il vuoto. In quel momento era così, in effetti. Fino a pochi minuti prima, pensava, c'erano le sue braccia a tenerla, le mani appoggiate sui suoi fianchi, il suo fiato sul collo. Con lui era riuscita a vedere i colori che la circondavano, con lui era tutto più armonico e gradevole. Con lui Zelda si rallegrava, sorrideva, rideva. Con lui si sentiva leggiadra, forse perché lui era un angelo. Sì, un bellissimo angelo con delle ali aggraziate, doveva esserlo.

Le sue guance si bagnarono, e ancora non era colpa della pioggia. Stava piangendo, e quando se ne accorse era così scossa dalla sua reazione a quei pensieri che ritenne giusto fermarsi un attimo per riprendersi e poi ripartire. No, impensabile. Soppresse quella congettura, quell'utopia. No, lui non poteva aspettare. O forse era lei, che non voleva. Ecco un'altra cosa che odiava: l'incertezza, l'indugiare nelle decisioni. Se avesse impiegato anche solo un minuto in più del previsto, ad arrivare, sicuramente qualcuno l'avrebbe accusata per aver tardato. Qualcuno, nel peggiore dei casi lui stesso. Ovviamente nessuno ci avrebbe fatto caso, nessuno le avrebbe rivolto un'occhiata acida, niente di tutto ciò sarebbe accaduto. Perché nessuno, oltre a lei, era a conoscenza del tempo preciso che ci si mette dalla sua abitazione all'ufficio di polizia. Undici minuti e mezzo. Comprese le scale del condominio. Ne erano passati nove, quasi dieci. Era vicina, eppure credeva che la sua meta si stesse allontanando. Poteva prendere un bus, certo. Ma no, perlomeno non quel giorno. Sarebbe bastata una fermata in più per farla tardare. E Zelda non voleva. Poteva prendere la bicicletta, avrebbe sicuramente dimezzato il tempo. Tuttavia la strada era bagnata, era pericoloso sfrecciare su due ruote. Anche a piedi rischiava di scivolare, ma si sarebbe rialzata in fretta. Per quanto forse avrebbe voluto rimanere a terra, inerme, incapace di fare nulla.

Un minuto. L'acqua aveva ormai raggiunto ogni centimetro della sua pelle. Le scarpe erano bagnate il doppio rispetto al corpo. I calzetti fradici, così come i pantaloni. Sotto l'impermeabile indossava una semplice felpa, intrisa anch'essa. La chiamata era arrivata improvvisamente, lei era ancora sotto le coperte, al caldo. Indossava quella stessa maglia, perché era impregnata del profumo di lui. Anche di notte aveva piovuto, ma a Zelda non piacevano i temporali di notte. Ne era intimidita. Per questo lui l'aveva stretta fra le sue braccia più del solito, lasciando la sua fragranza attaccata al tessuto azzurrognolo della felpa. Lui riusciva a capire quando qualcosa non andava come sarebbe dovuto andare, e sapeva anche come dissolvere le preoccupazioni. Non che dovesse fare chissà cosa: bastava un suo sorriso. A Zelda bastava quel suo tenero sorriso.

Mezzo minuto. Ovvero trenta secondi. Lui si prendeva cura di Zelda. Non c'era cosa che facesse che non fosse per il suo benessere. Cucinava solo per lei piatti squisiti, si alzava presto la domenica per pulire l'appartamento, di modo che lei non si dovesse scomodare, quando erano lontani a causa del lavoro era lui che la chiamava (era d'obbligo la videochiamata, mai per messaggio, troppo sterile per lui) per sentire come stava e che stava facendo. Era lui che ogni mattina la svegliava sussurrando un "buongiorno" e che ogni sera la faceva accoccolare sul suo petto, baciandole la fronte e mormorando un "buonanotte". Era lui il motivo per cui Zelda era felice.

Ora però il cuore le martellava sul petto, le mani le tremavano come foglie. Quel giorno lui non le aveva dato il buongiorno. Quel giorno lui era andato via prima. Quel giorno non c'era la colazione pronta sul tavolo della cucina. Svoltò all'angolo e si fermò di colpo. Quel giorno non era stata la sua voce quella che aveva sentito nella chiamata. Quel giorno Daisuke aveva telefonato, alle nove e mezza della mattina, per dirle di venire subito alla stazione di polizia. "Per cosa?", gli chiese Zelda. "Per Kato", aveva risposto lui. Si asciugò le lacrime e si aggiustò i capelli frettolosamente, poi raggiunse il ragazzo in smoking fermo davanti all'entrata. "È successo qualcosa?", domandò di nuovo. "Non te ne voglio parlare così" continuò: "Vieni, subito". Di fronte alla stazione di polizia, c'era l'ospedale. Zelda se ne rammentò solo dopo averlo visto. E Daisuke era lì, in piedi, che guardava l'orologio quasi impaziente. Dietro di lui i compagni di Haru. C'era perfino Hoshino. Perché quel giorno, quel maledettissimo giorno, l'amore della sua vita era stato ferito in un assalto, mentre cercava di proteggere gli altri. Ed ora era lì dentro, appeso ad un filo tra la vita e la morte.

Ora Zelda odiava la pioggia. Come odiava l'inaspettato, l'improvviso, l'irrimediabile.

𝘞𝘩𝘪𝘴𝘬𝘦𝘺 | 𝘏𝘢𝘳𝘶 𝘒𝘢𝘵𝘰Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora