3

37 5 2
                                    


3.


Una volta al mese arrivo al Gruppo mezz'ora prima perché Thomas vuole parlarmida sola.
Lo fa con tutti, il mio turno è quello del secondo martedì del mese, subitodopo Jane e Soraya, che escono dal loro incontro abbracciate e con un nuovoricordo della figlia da condividere, qualcosa di cui si erano dimenticate e chelui ha tirato fuori dalle loro menti tristi.
Le invidio molto, sia per la loro complicità che per il modo in cui riescono adaffrontare il lutto.
Forse hanno vissuto i loro cinque anni da madri in attesa di questo momento, eciò rende... diverso il loro dolore.
Non voglio dire facile, perché niente èfacile quando la gente muore, figuriamoci quando a morirti è un figlio.
Thomas mi accoglie con in mano un the caldo per me, deteinato perché sa quelloche faccio appena esco da qui, prima di prendere la metropolitana.
- Ciao, Ophelia.- Mi dice sorridendo. – Come stai oggi?-
Mi tolgo la giacca e mi siedo, lui si accomoda davanti a me e prova asorridere.
È uno dei pochi sorridi che apprezzo, perché so che non è di semplicecircostanza ma cerca di trasmettere qualcosa di vero e onesto.
Prendo il the e bevo un paio di sorsi bollenti prima di parlare.
- Come al solito.- Sospiro. – Io cerco di portare avanti quel che resta dellenostre vite e la gente sembra ricordarsi solo del fatto che mia figlia siamorta.-
- È successo qualcosa di particolare?- Mi domanda. Di solito la risposta è no,è il semplice vivere che mi mette davanti a questi imbarazzanti tentativi ditatto, ma questa volta c'è stato un fatto particolare.
- Giovedì è il compleanno di un'amica di Kelly, abita a sei isolati da noi.Ieri sono andata a prenderla a scuola e alcune mamme parlavano delle solitequestioni organizzative che saltano fuori in questi casi: chi porta le bambine,chi le accompagna a casa, se servisse qualche passaggio... così ho detto chesarei andata a prendere Kelly prima di cena, perché mi era di strada dopo lapalestra, e mi è stato chiesto se ero sicura di volermi trovare in una "casapiena di bambini".-
- E tu?-
- Le ho detto che non c'erano problemi, di non preoccuparsi. Ma avrei preferitodomandarle se per lei Kelly non fosse un'adulta, visto che l'ho a casa tutti igiorni.-
- Ma non l'hai fatto.- Osserva Thomas.
- No, non l'ho fatto perché non avrebbe colto il sarcasmo. Avrebbe pensato chefossi solo triste e arrabbiata perché mia figlia è morta e avrebbe inventatoqualche altra cazzata per giustificare il suo inutile tentativo di aver tattonei mie confronti.-
- Hai pensato che potrebbe semplicemente essere difficile per loro avere a chefare con il tuo lutto? Sono madri, provano a immedesimarsi, magari soffronoquando pensano a ciò che vi è successo.-
Alzo le spalle.
- Immedesimarsi in questo è impossibile, Thomas. Sarebbe più facile chiedermicome sto.-
- Hai mai chiesto a Dorothy come stesse dopo la morte di sua figlia? Prima cheperdessi Vivian, intendo.-
Ci penso, poi scuoto la testa.
Non l'ho mai fatto, in effetti. Perché ho sempre pensato che chiedere "comestai?" a una donna che ha seppellito sua figlia fosse una bella domanda delcazzo, come chiederlo a un moribondo o a uno che ha perso tutto.
- Nessuno ci insegna ad affrontare il dolore degli altri, Ophelia. Molto spessonon sappiamo gestire neanche il nostro. Nessuno cerca di negare l'esistenza diKelly o il fatto che la tua vita stia andando avanti malgrado il dolore, maevidentemente questo è ciò che gli viene meglio; allontanarti da quel checredono possa farti male.-
- Ma tutto può farmi male.- Sbotto. – Una bambina su un autobus, una mamma inun negozio di giocattoli, sapere che la linea di metropolitana che prendo pervenire fin qui è la stessa che porta all'ospedale in cui è morta. Tutto famale, tutto fa schifo, tutto è doloroso.
E sono viva proprio perché ogni giorno sento questo dolore stringermi attorno,perché non scappo davanti ai bambini sugli autobus, perché entro ancora neinegozi di giocattoli anche se per una figlia sola, perché prendo quellamaledetta linea di metropolitana.
Dovrei chiudermi in un bunker antiatomico sottoterra per essere viva senzasentire dolore, e sicuramente anche lì troverei ricordi di mia figlia e stareimale. Io vorrei solo che la gente potesse capire che per me vivere e soffrirevanno di pari passo, che non posso far l'uno senza l'altro. Non voglio che miproteggano, voglio che mi capiscano e mi accettino per ciò che sono ora,sessantasette chili di sofferenza che respira.-
Rimaniamo in silenzio, l'orologio segna che ci restano dieci minuti primadell'incontro del gruppo e io sento lacrime calde che mi bagnano il viso.
- Non... non voglio rimanere.- Dico tra i singhiozzi. – Non voglio fare la sedutacon gli alti, non voglio piangere davanti a loro... voglio andare a casa.-
Thomas si alza, mi prende il bicchiere e torna da me qualche secondo dopoporgendomi del caffè.
- Non sei obbligata a restare, non sei obbligata neanche a tornare la prossimasettimana, o quella dopo, o mai più.
Però è importante che tu sappia che le persone di là forse conoscono questasensazione, la mancanza di comprensione che hai sentito ieri. Questo è uno deimotivi per cui siete qui, il potervi confrontare con chi ha un'esperienzasimile alla vostra.-
Conosco questo discorso, è quello che fa spesso.
Thomas per primo non ha perso figli e sa qualcosa in più della gente là fuorisolo perché l'ha studiato, ma i miei malcapitati compagni di gruppo no.
Loro queste cose le hanno vissute, chi più chi meno tutti si sono trovatidavanti all'incapacità degli altri di reagire al nostro dolore, e forse siamoun po' più bravi a capirci tra di noi, malgrado ogni storia, ogni lutto, ognifiglio morto sia una cosa diversa.
Cerco nella borsa dei fazzoletti, mi asciugo le lacrime e mi soffio il naso,dico a Thomas che devo andare in bagno e che, se me la sento, poi li raggiungonella stanza azzurra.
Piango, piango e piango per quasi mezz'ora chiusa in un gabinetto con finestravista strada.
Dalla finestra aperta entrano il freddo di questo inverno infinito e i rumoridelle auto, mentre il buio inizia a inghiottire New York e tutte le anime chela vivono.
Entro in sala che sta parlando Soraya.
La cosa assurda di lei e Jane è chequando parlano piangono sempre, ma non sai mai se piangono per la tristezza oper quanto buffi sono i ricordi che hanno della loro bambina.
Ora racconta di una gita al lago, della piccola che già non camminava ma cheaveva deciso di entrare in acqua da sola, facendosi trainare dalla pocacorrente che quel posto poteva avere.
E dai e dai l'avevano trovata a tre metri dalla riva che rideva e sguazzavafacendo onde con le braccine, incurante di un corpo che non l'aveva mai volutae che presto l'avrebbe uccisa.
Quando l'incontro finisce, prima di uscire, mi avvicino a Dorothy el'abbraccio.
- Scusa.- Le sussurro.
Si stacca dall'abbraccio e mi guarda senza capire, ma io mi nego a ognispiegazione.
Mi abbraccia lei.
- Va tutto bene, Ophelia. Qualsiasi cosa sia va tutto bene.-

Troppo piccoli per capireDove le storie prendono vita. Scoprilo ora