Capitolo 1.

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L'esca

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L'esca

Un gelo pungente penetrava la fitta cortina di lana, eppure le mie membra non tremavano per il freddo, bensì vinte da un morboso torpore: le gambe sostavano languide, come se le avessi consumate correndo fino allo sfinimento, e le braccia restavano raggomitolate sul petto, incollate al tenue calore del mio corpo, difendendomi dall'arietta gelida ch'entrava dalla finestra sbeccata.

Il vecchio tessuto pizzicava insistentemente la mia pelle, infilzandola con tanti invisibili aghetti.
La voglia di gettare via quell'inutile coperta prudeva in un antro del mio cervello, ma i miei arti restavano immobili nel timore e nell'attesa d'una risposta in grado di alleviare quel crescente vuoto che s'allargava nel mio petto.

- È stato difficile, ma pian piano riprenderò le forze.

Mi voltai verso quella pacata voce. I miei occhi corsero sulla spessa stoffa, risalendo lungo le eleganti pieghe create dalle sue morbide curve. Provavo una lieve punta d'invidia verso la bellezza così casuale di quella ragazza.
L'unica persona che sta bene senza bisogno di coprire i segni della stanchezza con una cipria!

- Cosa? - Domandai, scuotendo debolmente la testa. Mi ero già scordata l'oggetto della nostra discussione.

Una mano pallida si posò sulla mia spalla.
- Ho passato tanto tempo nella forma del gigante carro, ma sto riacquisendo le forze. - Ripeté Pieck. - Ti senti bene? Hai bisogno di una tisana?

Levai immediatamente lo sguardo: osservarla mentre cercava di prendersi cura di me mi feriva, io ero rimasta in panciolle mentre i miei amici marciavano a Paradise e rischiavano la vita... eppure Pieck voleva prendersi cura di me, quando lei a malapena si reggeva in piedi!

- No. - Bisbigliai, rifiutandomi di guardarla negli occhi. - Sto bene grazie.

Non era interamente vero, però i miei problemi erano un nonnulla se paragonati ai suoi. Ma quel bizzarro vuoto nel cuore non cessò, nemmeno di fronte alle sue parole, volevo ancora disperatamente mettergli un tappo, come a fermare un'inarrestabile emorragia.

La nostalgia, da tenue fastidio che era, pareva essersi trasformata in un oblio senza uscita. Mi mancava la mia infanzia spensierata, avrei preferito di gran lunga restare ignorante per sempre piuttosto che soffrire di fronte al destino dei miei amici. Ogni volta che li guardavo mi tornavano in mente la maledizione di Ymir e quella dannata lancetta che non smetteva mai di ticchettare nel mio cervello.
Tredici anni. Ripeteva. Tredici anni.

- Hai mai voluto qualcosa di più? - Mi venne spontaneo chiedere, fissando il placido soffitto dal quale s'erano già staccati diversi pezzi di intonaco.

- In che senso?

- Fermarti a costruire qualcosa. - Vagheggiai, poi affrettandomi ad aggiungere impacciatamente: - Non dico necessariamente con me, anche se non mi dispiacerebbe.

Ali di Piombo |𝒜𝓉𝓉𝒶𝒸𝓀 𝑜𝓃 𝒯𝒾𝓉𝒶𝓃Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora