Capitolo 4: Allegretto

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Schiacciamento della cartilagine tiroidea.
Comunemente detto “colpo al pomo d’Adamo”. Insieme a pochi altri, è uno dei colpi immediati che permette di uccidere un uomo a mani nude.
Non tutti sanno che il pomo d’Adamo non è un osso, ma una cartilagine. Come il naso, o le orecchie. Tessuto molle semi-duro che, in questo caso, circonda la laringe, sede delle corde vocali e principale condotto di respirazione. Viene da sé che, se si spezza la cartilagine, il condotto collassa su se stesso.
Soffocamento.
In sede autoptica è indizio di strangolamento, o impiccagione.
Sherlock non sapeva perché aveva scelto proprio quel metodo per uccidere Jonathan Wild.
Dopotutto, aveva altre possibilità. Aveva una pistola, poteva recuperare un coltello. Erano da soli in quella pensione fatiscente ai margini di Lhasa, dopo che qualche banconota da 100 yuan aveva comprato il silenzio e l’assenza del proprietario e degli altri pochi ospiti, e Wild era stato talmente disattento da essere colto alle spalle e neutralizzato, ammanettato poi al sifone di un calorifero. Era inerme, spavaldo solo per non farsi vedere spaventato, e nella semi-oscurità di quella stanzetta lo aveva persino implorato; gli aveva dato informazioni di ogni genere senza che gli venissero chieste, aveva fatto i nomi di Spencer e Moran. Tutto di sua spontanea volontà.
Sherlock non aveva aperto bocca. Lo aveva osservato dall’alto in basso, in piedi a poca distanza da lui, annotando mentalmente le informazioni utili e scartando quelle inutili.
Subdolo, codardo essere umano, si era ritrovato a pensare: morto il capo, ognuno per sé.
In realtà non lo compativa. Non provava pietà per lui. Non sapeva esattamente cosa pensare, nel pieno di quella sorta di sorda tranquillità di chi si trova davanti qualcosa che ha agognato da molto tempo e ne rimane totalmente deluso.
Quando Wild capì che l’uomo di fronte a lui non era come tutti gli altri aguzzini che gli stavano alle calcagna da più di un anno, Sherlock aveva già alzato la gamba. I suoi studi di baritsu1 gli diedero la forza e la precisione che gli servirono per sferrare un colpo secco, un calcio da manuale, prendendo con la suola degli scarponi il centro esatto della gola.
Ed ora, Jonathan Wild si muoveva come un verme ai suoi piedi, agonizzante, impossibilitato a respirare. Sherlock sapeva che quegli occhi spalancati avrebbero perso il dono della vista entro pochi secondi, e che probabilmente l’udito gli si era già ovattato; la paura gli faceva bruciare più in fretta il poco ossigeno rimasto in circolo nel suo sangue e, continuando così, sarebbe morto prima del sopraggiungere dell’ipossia cerebrale.
Poco importava.
Sherlock Holmes non cercava vendetta, né tantomeno redenzione. Non era indifferente alla morte ma non la temeva. Per un fantasma è difficile diventare un assassino, e questo era lui da più di un anno: uno spettro. Una persona viva ma morta, nascosta dietro un nome fasullo a vivere una vita che non gli appartiene. Aveva tenuto il conto dei giorni senza accorgersene e l’unica cosa che infine voleva, l’unica cosa che gli importava davvero, era tornare a casa.
Non poteva farlo se prima non metteva fine alle vite di cinque uomini? Bene, lo avrebbe fatto. È fin troppo facile superare la linea sottile che divide la morale dalla necessità, e in casi estremi nella necessità non esiste alcun tipo di morale.
No, Sherlock Holmes non provava pena per l’assassino la cui vita si stava spegnendo in agonia ai suoi piedi. Gli bastava pensare che, almeno una volta negli ultimi due anni, le sua mano aveva stretto quella di Moriarty, i suoi servigi erano stati a disposizione del Napoleone del Crimine, il suo occhio aveva agganciato con un mirino una persona per lui importante.
Tanto bastava a trovare il fegato di veder morire un uomo per propria mano e assicurarsi che l’ultima cosa che avrebbe visto sarebbe stato il suo disprezzo.
 
 
 
 
Mary Morstan era un’insegnante di inglese.
Originaria di Manchester, si era trasferita a Londra con il suo precedente marito, morto in un incidente stradale un paio d’anni prima. Aveva cominciato a fare volontariato al St. Thomas come terapia per superare il lutto, ma poi non aveva più smesso. Le piaceva il caffè d’orzo, la lettura e mangiare al Mc Donalds. Le piaceva anche andare al cinema ma solo per vedere film horror e d’azione; la sua idea era che le commedie romantiche potessero essere viste anche in DVD o in televisione e non valessero mai del tutto le 9 sterline del biglietto d’ingresso. Aveva un gatto rosso di nome Oliver – tributo al film della Disney – e, nel tempo libero, le piaceva dipingere fiori con le dita.
John aveva scoperto tutto questo in circa un’ora di conversazione, seduto al tavolino di un Costa Café appena fuori Hyde Park. Si erano incontrati per caso al parco, quella domenica, e dopo qualche secondo di saluti imbarazzati John aveva fatto un passo avanti e l’aveva invitata a prendere un caffè (praticamente la prima cosa che gli era venuta in mente). Lei aveva accettato.
Si erano seduti dopo aver ordinato, e quei dieci minuti che John si era figurato erano diventati ore. Il suo Black Coffee ancora mezzo pieno si era raffreddato, nel frattempo, e lei aveva ordinato un secondo Vanilla Latte solo per non deludere la cameriera, che aveva preso ad osservarli di sottecchi.
Gli piaceva, parlare con lei. Aveva un sorriso che trasmetteva serenità e un modo di narrare gli argomenti che riusciva a trasformare le cose di tutti i giorni in particolarissime avventure. Era simpatica, intelligente e bene educata, e da come si esprimeva riusciva a capire che fosse anche molto acculturata, probabilmente per merito di tutti i libri che leggeva. Scherzando, aveva detto che suo marito una volta le disse “Mary, se non dovessi trovarti a casa rientrando dal lavoro, sicuramente ti ritroverei in una delle tue solite librerie”.
Sembrava serena anche nel raccontare del marito morto, e John non poté fare a meno di apprezzarla, per quello. Non era da tutti mettersi l’anima in pace a quel modo, rialzarsi in piedi e continuare a vivere dopo una perdita grave come la sua, e lui stesso ce la faceva a malapena, permettendo al suo dolore di riaffiorare a galla solo di qualche centimetro. Parlare di Sherlock, per lui, era come afferrare il tappo del vaso di Pandora e provare ad aprirlo; semplicemente, non si doveva fare.
Aveva paura di stuzzicare quel dolore, rinchiuso a forza di calci e pugni in un angolo dimenticato del suo subconscio. Preferiva l’indifferenza e l’abnegazione. Se non ci avesse pensato, se non l’avesse fomentato, o affrontato in alcun modo, era sicuro che prima o poi se ne sarebbe dimenticato, e insieme ad esso sarebbe sparito anche tutto il resto.
Un’opportunità per ricominciare. Ora come ora, voleva solo quello.
Era passato più di un anno, ormai. Ogni giorno l’immagine di Sherlock sbiadiva sempre un po’ di più dai suoi pensieri, la sigaretta durava sempre un po’ di meno, il gesto diveniva un po’ più abitudine e meno rituale.
Lo stava dimenticando, ed era bene così.
Finito il caffè, quando ormai si era fatta ora di tornare a casa, John prese una decisione.
Poteva essere un inganno, o un modo per illudere se stesso, o un tentativo di voltare le spalle a quel grumo scuro di auto-compatimento che gli picchiettava sulla spalla cercando di attirare la sua attenzione. Poteva essere di tutto, in realtà, ma di sicuro qualcosa di meglio. O almeno, in quel momento lo sembrò.
Invitò Mary a cena.
Lei disse di sì.
 
 
 
 

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