Aveva pensato di non andarci.
Nessuno lo avrebbe fatto. Nessuno, che avesse almeno un po' di buon senso e un briciolo di amor proprio.
Forse questo concetto non si applicava a lui, allora. Dopotutto non aveva niente da perdere.
Bethnal Green era una fermata della Central line, piccola ma famigerata a causa di una strage civile avvenuta durante la Seconda Guerra Mondiale. Non era molto trafficata, solitamente, ma lo diventava (come tutto il resto della linea) durante gli orari di punta.
Come le 18:15.
Più rimaneva fermo in piedi alla banchina in direzione Stratford, più si rendeva conto che tutto ciò che lo circondava non era casuale.
C'era molta gente lungo i binari, ferma in piedi ad aspettare i treni. Tutte persone con abiti eleganti e ventiquattrore, studenti nelle loro divise scolastiche che tornavano a casa dal rientro pomeridiano o adolescenti in tuta da ginnastica che si dirigevano sul campo da rugby.
Per un momento pensò a quando era lui, a giocare a rugby. A quando si riempiva di fango e si rompeva le ossa in mischia solo per scaricare il quantitativo spropositato di rabbia e delusione adolescenziale che si portava dentro. Aveva passato l'adolescenza sempre sul punto di esplodere, sempre sul punto di urlare al mondo quanto fosse ingiusto e schifoso.
Un po' come si sentiva in quel periodo.
Implodeva ogni giorno. Silenziosamente e sempre da solo, ma arrivava ad un certo punto della giornata in cui doveva fare due profondi respiri e trattenersi dallo spaccarsi le nocche delle mani prendendo a pugni un muro.
Forse era quello in motivo per cui ora si trovava in mezzo a tutta quella gente senza sapere cosa – o chi – aspettarsi. Perché i lividi sulle mani e un nome ormai sbiadito sul dito erano diventati meglio che ricordarsi quei 18 mesi con Sherlock e pensare a quanto fosse stato vicino alla vera felicità.
Deglutì, guardandosi intorno per distrarsi da certi pensieri. Proprio in quel momento, l'altoparlante della stazione annunciò la temporanea interruzione delle corse a causa di un intralcio sui binari, nelle gallerie. Un mormorio di disappunto si levò dalla folla, che si faceva sempre più fitta e numerosa.
Si ritrovò ben presto con la schiena appoggiata al muro. Le lancette dell'orologio da polso che indossava segnavano esattamente le 18:20.
Avrebbe dovuto andarsene. No, non sarebbe nemmeno dovuto andare lì. Tutta l'intera storia puzzava di marcio da ogni punto di vista. Cosa ci faceva lì? Cosa sperava di trovare?
Stava per incamminarsi verso l'uscita quando un uomo lo affiancò in silenzio, entrando con un gruppetto di pendolari.
« Sono sorpreso che abbia accettato l'invito, Capitano Watson ».
John si irrigidì, staccandosi dal muro e squadrando di riflesso le spalle. Istintivamente cercò il rassicurante peso della pistola, dimentico che essa era chiusa a chiave ormai da anni nel cassetto del suo comodino.
Indeciso sul da farsi, optò per stare al gioco.
« Le premesse erano invitanti » ribatté. « Con chi ho il piacere? » domandò subito dopo.
L'uomo, a differenza sua, si mise tranquillamente le mani in tasca e si appoggiò con la schiena alla parete. Guardandolo con la coda dell'occhio, John vide un uomo alto e ben piazzato, capelli biondi dall'aria dismessa e occhi marroni; aveva mani dalle dita robuste e l'inconfondibile aria da esercito.
Riusciva a sentirne quasi l'odore.
« Sebastian Moran » rispose quello, guardando dritto davanti a sé.
« Moran... » John assaggiò il nome con la lingua. « Mi ricordo. Un disertore. Credevo fossi a marcire in un qualche carcere militare » aggiunse poi, restio a dargli troppa confidenza o ad ammorbidire il tono.
Moran ridacchiò, divertito.
« Ricordami, Colonnello, quanti civili hai ucciso? » continuò poi Watson senza nemmeno sforzarsi di essere rispettoso.
« Ventiquattro. Più dodici di noi in alcune azioni insospettabili » precisò: « mi piacciono i numeri pari ».1
John storse il naso. Se c'era stato qualcosa di azzeccato, nella sua vita, quella era stato l'Esercito nonostante fosse formato quasi nella sua interezza da Bondless e BCE, ovvero da persone che difficilmente avevano altro posto al mondo. La gente – quella "normale" – credeva che l'aiutare la difesa del Paese e dei suoi ideali fosse un passo avanti, per Bondless e BCE, ma non si esimeva dal chiamarli comunque "feccia" a bassa voce, senza farsi sentire.
Se loro erano feccia, i traditori come Moran erano la crosta di sporco sul fondo del barile.
« Si può sapere cosa vuoi da me? » chiese – sputò – seccato.
« Rilassati, Capitano. Sono qui perché abbiamo una conoscenza in comune » gli rispose. Si tolse le mani dalle tasche, poi, per sfilarsi l'anello d'oro che portava all'anulare sinistro.
John trasalì, a disagio. Togliersi l'anello in pubblico era semplicemente qualcosa che non si faceva, una convenzione sociale legata alla privacy dei SIN; ma nessuna delle persone che li circondavano sembrava badarci e, chi se ne accorse, distolse lo sguardo.
Moran sogghignò alla sua reazione, ma gli mostrò comunque la mano sinistra.
E John lo vide. Sul dorso dell'anulare non vi era alcun nome, solo una cicatrice traslucida più chiara della pelle che, guardandola meglio, era formata da tre lettere incise sulla pelle in modo maldestro (e sicuramente doloroso).
J I M.
Realizzò quasi immediatamente con chi aveva a che fare e si girò di scatto, allontanandosi di un passo (per quanto la folla glielo permettesse) e mettendosi sulla difensiva.
Ma Sebastian Moran sembrava la persona più tranquilla dell'universo mentre si rimetteva al dito la fede come se il fatto nemmeno fosse suo.
« Sono un Bondless » cominciò poi: « ...il Bondless di James. Così come lui era un Ribbon. Mi ritrovò nella prigione militare di Kabul e, per usare le sue parole, mi "reclamò". Ha usato un cutter, per fare questo » disse, muovendo il dito con l'anello dorato.
John non fece una piega, teso e pronto a tutto. Moran non faceva altro che osservarlo e non sembrava avere in mente una qualsivoglia azione offensiva.
« Penso che tu sappia perché ho voluto incontrarti, Capitano » disse poi.
« Non sono più "Capitano" ».
« Non si smette mai di essere un soldato » rispose però Moran, esprimendo a parole ciò che anche John pensava: « Le tue medaglie e menzioni in dispaccio meritano almeno il rispetto del grado » disse, serio.
John rimase in silenzio, pensieroso. Poteva fidarsi?
Aveva scelta?
« La fotografia... » cominciò allora: « ...è autentica? ».
« Affermativo » rispose l'altro: « scattata a Montpellier, in Francia, circa un mese fa ».
John prese due profondi respiri. « Lui è morto ».
« Per te, » rispose Moran: « per l'opinione pubblica. Ma non lo è mai stato davvero ».
Il cuore di John accelerò. « Menti » lo accusò.
« Sei tu che non vuoi accettare la possibilità che io abbia ragione ».
John scosse il capo, distogliendo lo sguardo e fissandolo sulla punta rovinata delle proprie scarpe. « No... » mormorò, incredulo: « l'ho visto cadere... ero lì quando... quando... » borbottò a bassa voce.
« Non so come ha fatto » intervenne Moran, il tono franco che i soldati usano con i propri commilitoni: « l'ho rintracciato per caso parlando con un falsario di Birmingham. Se ne andava in giro a cercare gli uomini che avevano collaborato con Jim tre anni fa... ho avuto conferma che si trattava di Sherlock Holmes solo cinque mesi fa » spiegò.
Watson non sapeva cosa dire. Continuava a scuotere la testa ad inerzia, come se quel movimento dovesse aiutarlo a rendere tutto meno possibile e dunque a mantenere una calma composta, rifiutandosi di credere a ciò che sentiva e a ciò che aveva visto. Nella mente aveva solo gli eterni fotogrammi di quel volo giù dal tetto del Barts e del sangue sull'asfalto.
Come poteva essere tutto una menzogna?
Come poteva?
Ma la domanda che alla fine fece fu un'altra.
« Perché io? Perché adesso? Perché qui? ».
Moran distolse di nuovo lo sguardo da lui, tornando a guardare qualcosa davanti a sé. « Perché i mocciosi, intendi? » domandò retoricamente: « non so se l'hai notato, ma hai praticamente mezza città alle costole » disse, quasi candidamente.
John alzò lo sguardo, aggrottando le sopracciglia. « In che senso? » chiese.
« Sorveglianza. È diventato difficile avvicinarti, ho rischiato di farmi scoprire, la prima volta. I bambini erano il modo meno pericoloso per contattarti. Nessuno si preoccupa di un gruppo di orfani scapestrati che girano per Londra, soprattutto se sono Ribbons » spiegò.
La prima immagine che gli passò per la mente fu il volto irritante di Mycroft Holmes e seppe subito che, nonostante non lo vedesse o sentisse da quasi tre anni, questo non valeva per entrambi ed in entrambi i sensi.
Trattenne un fiotto di fastidio. « Perché dovrebbe sorvegliarmi? » domandò poi, anche se cominciava ad intuire la risposta.
« Sicurezza » rispose subito Moran: « a causa mia. Perché sono a piede libero e sono io quello che doveva ammazzarti, se Holmes non si fosse buttato dal tetto ».
Watson, se possibile, si fece ancora più teso. Il corpo era completamente rigido e i muscoli del collo potevano tranquillamente essere paragonati a corde di violino. Se non fosse stato pressato in mezzo alla folla di pendolari sarebbe indietreggiato fino a raggiungere una distanza di sicurezza maggiore dei trenta centimetri che attualmente li separavano. Ma non poteva, ed ora era sufficientemente cosciente che anche il ritardo dei treni fosse opera del Colonnello Moran.
Confusione, pensò. Gente. Tante teste che avrebbero facilmente reso inutile un sistema CCTV, o impedito a delle invisibile guardie del corpo di fare il loro lavoro. Si immaginava gli uomini di Mycroft bloccati nella folla, o del tutto assenti dato che quello era un tragitto che lui faceva abitualmente almeno un paio di giorni a settimana. Era tutto volto ad allontanare la morsa di sorveglianza che Mycroft doveva aver stretto intorno a lui senza che lui se ne accorgesse.
Proprio quando pensava di essersi tolto per sempre dai piedi la stirpe Holmes.
Quasi non voleva sapere la risposta alla sua prossima domanda.
« È vivo? » domandò, il tono duro e venato d'ira.
« Sì » rispose Moran.
« Come posso esserne sicuro? ».
« Hai la fotografia, tutti i suoi alias che sono riuscito a scoprire e persino i luoghi in cui è stato ».
John soffiò fuori una breve risata scettica. « E dovrei fidarmi sulla base di una fotografia e di un paio di nomi? ».
« Eppure sei qui » rispose franco l'altro.
John si ammutolì.
Non sapeva più distinguere cosa lo facesse arrabbiare di più, in tutta quella storia. Credere a Moran – credere alla fotografia di colui che pensava essere un fantasma fino al giorno prima – significava rendere reali una serie di implicazioni.
Menzogna. Tradimento. Quasi tre anni di vuoto e desolazione e rabbia, tanta rabbia... tre anni di rimpianti in cui non si era sentito all'altezza di niente, in cui aveva smontato il proprio orgoglio pezzo dopo pezzo facendo finta che esistesse ancora, negando di averlo distrutto con le proprie mani.
Quasi tre anni di sigarette fumate alla memoria di un traditore.
Traditore, traditore, traditore, traditore, traditore!
Perché non mi hai detto niente? Perché non mi hai coinvolto? Sarebbe bastata una parola e ti avrei seguito in capo al mondo. Ero già tuo da usare come volevi.
Ti amavo già così tanto e tu nemmeno lo meritavi.
Non si accorse nemmeno di stare stringendo i pugni fino a far sbiancare le nocche e conficcarsi le unghie nella carne dei palmi. Non si accorse dei muscoli tremanti per la tensione e dei denti serrati fino a farsi dolere le gengive. Guardava il volto noncurante di Moran con l'espressione furente di un uomo che nasconde dentro di sé una bestia pronta a saltarti al collo.
E forse lo era.
Forse lo era sempre stato.
Forse era nella sua natura di BCE.
Forse suo padre aveva sempre avuto ragione.
Soffiò fuori uno sbuffo d'aria dal naso, chiudendo gli occhi alla ricerca non di uno stato di calma (non poteva) ma almeno di autocontrollo.
« Cosa vuoi da me? » chiese poi, con un tono che sembrava rassegnato ma lo era solo in apparenza.
Se si fosse tolto l'anello, John ne era sicuro, il nome di Sherlock probabilmente sarebbe stato a malapena visibile.
Forse anche il SIN era una prova. Lo spezzarsi definitivo di un Legame già a senso unico che aveva fatto guarire la sua perenne ferita e fatto scomparire quel nome che era sempre stato più disperazione che speranza.
Moran rimase in silenzio per un istante, guardandolo dritto negli occhi senza la minima emozione.
« Voglio Sherlock Holmes » disse poi.
John ricambiò lo sguardo. « Vuoi ucciderlo? » chiese.
« Sì » ammise il Colonnello.
« Vendetta? ».
« Sì » rispose di nuovo.
« E perché dovrei aiutarti? » chiese allora John.
« Perché siamo simili, in fondo » disse Sebastian: « abbiamo entrambi tentato di ricavare del buono dalla nostra vita e guarda come siamo stati ripagati. Spendibili in guerra, da scartare non appena diventati inutilizzabili, ributtati in una società che ci ha sempre considerati come una sottocategoria dell'essere umano, qualcosa di simile alle bestie. Tu sei stato ottimista e lo sei stato più a lungo, io l'ho capito prima ».
John non rispose, cercando di rifiutare la verità che filtrava da quelle parole. Una verità che era già penetrata dentro le sue ossa con tutta la sua forza.
« E questo dovrebbe giustificare un mio tradimento nei confronti di... Sherlock? » non riusciva nemmeno a pronunciare il suo nome senza interrompersi.
« Lui non si è fatto di questi problemi, mi sembra » rispose però Moran.
Come poteva ribattere ora? Come poteva dirgli "no", quando persino lui stesso non credeva più in niente?
Tutto il tempo passato con Sherlock sembrava un'inezia, qualcosa che solo lui era stato idiota abbastanza da considerare importante. Aveva tanti bei ricordi di lui – non ultimo quel bacio, quella notte sempre più lontana e sfocata – ma ai suoi occhi si erano trasformati in momenti incongruenti, attimi che solo lui aveva ancora il coraggio di conservare con cura.
Scommetteva che Sherlock se ne era già dimenticato. Anzi, probabilmente per lui era stata tutta una prova, una sorta di gioco, di esperimento. E lui, John Watson, un cagnolino fedele con cui giocare per un po' e che poi aveva abbandonato.
Abbandono, sì. Aveva convissuto con l'abbandono. Lo aveva respirato con l'aria e ingerito con l'acqua.
Per lui Sherlock Holmes era importante.
O meglio, lo era stato.
Non si ricordava più quando aveva smesso di esserlo.
Cosa lo obbligava a proteggere Sherlock Holmes? Cosa lo spingeva a rispondere "vaffanculo" col rischio di venire ucciso a sangue freddo esattamente lì, su quella banchina? Lo avrebbe fatto se avesse saputo.
Lo avrebbe fatto, se il nome sul proprio dito non stesse inesorabilmente scomparendo.
Cosa si ha da perdere quando non si possiede più niente ed il futuro non ha in serbo nulla se non l'incertezza? A cosa dovrebbe aggrapparsi una persona se tutto ciò che ha di più caro si scopre essere frutto di una menzogna?
Perché non assecondare le aspettative della società, allora?
Perché non scegliere la strada più semplice?
« Quale sarebbe la mia parte in tutto questo? » domandò dopo qualche istante di pensoso – e rassegnato – silenzio. Le persone attorno a loro cominciavano a muoversi sul posto, irritate per il ritardo del treno.
« L'esca » rispose semplicemente Moran.
John ridacchiò amaramente. « Chi ti dice che gli importi così tanto di me? ».
« Ti ha salvato la vita. Vi ha salvato la vita. A te, a quel Detective di Scotland Yard e alla vostra padrona di casa. Eravate dei bersagli tutti e tre » gli spiegò: « verrà anche questa volta. Non si sarebbe impegnato così tanto a darci la caccia, altrimenti ».
Era consapevole che quella rivelazione avrebbe dovuto rabbonirlo, fargli provare orgoglio o, quantomeno, un positivo senso di comprensione nei confronti di Sherlock... ma non fu così. Non sentì niente, nemmeno dispiacere, tantomeno responsabilità.
« Intuirà tutto » rispose John.
Il Colonnello fece spallucce: « ci proverà comunque » assicurò.
« Come fai ad esserne sicuro? » continuò John.
Moran, distrattamente, si toccò la fede con le dita. « Ci conto » rispose solamente.
Anni prima non avrebbe mai accettato. Sarebbe stato persino nauseato dal pensiero di lavorare al fianco del braccio destro di Moriarty, l'uomo che aveva fatto passare loro l'inferno.
Ma non in quel momento. Non più. Non sentiva niente. I suoi sentimenti erano addormentati, rinchiusi in un angolo buio del suo subconscio, inermi. Forse era quella la cosa davvero spaventosa.
Nel suo silenzio, Moran osservò l'orologio. « Tempo scaduto, Capitano » disse, staccandosi dal muro e raddrizzando la schiena. « Due giorni, Watson. Sai come contattarmi ».
John aggrottò minacciosamente le sopracciglia. « Credi davvero che userò gli Irregolari? » chiese.
« E tu credi davvero che me la prenderò con dei bambini? » chiese di rimando Moran, come se il fatto che avesse un briciolo di coscienziosità fosse scontato.
John non rispose, limitandosi a guardare le spalle del Colonnello mentre si allontanava in direzione dell'uscita.
Pensò a quella possibilità tutta la notte. E tutto il giorno seguente. E persino la notte successiva.
Senza dormire, senza mangiare. Immobile con lo sguardo fisso in un punto.
Aveva contato i propri pensieri uno ad uno, considerato le possibilità e le conseguenze, le prospettive. Si era lasciato affogare nell'idea alla ricerca di un qualcosa che lo fermasse o che, almeno, gli facesse nascere il dubbio.
Ma non trovò niente.
Riusciva solo a pensare che Sherlock era vivo, lo era sempre stato, e lui non lo aveva mai saputo.
Qualcuno sapeva? Quasi sicuramente sì. Qualcuno doveva averlo aiutato a fuggire, a nascondersi, a fingere.
Chi? Qualcuno che conosceva? Qualcuno di cui si fidava?
Più ci pensava e più si sentiva tradito, patetico... inutile.
Rimpiazzabile.
La mattina del terzo giorno mandò Agatha a cercare Rick e strappò un foglietto dal blocco delle ricette. Afferrò una penna e, senza esitare, scrisse la sua risposta.
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Meant to be alone [ITA]
FanfictionFanfiction di Yoko Hogawa (fonte EFPfanfic.net). In un mondo in cui le persone nascono con il nome della propria Anima Gemella "tatuato" sul dito anulare della mano sinistra, John e Sherlock vivono due situazioni particolari ed opposte. Mentre il pr...