Capitolo 2: Andante

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Estrasse la pipetta dalla bottiglia di plastica del reagente, prendendone un quantitativo minimo. Portò la punta in plastica sul vetrino, facendone cadere una goccia sopra il suo campione – un residuo di vernice verde trovata sotto le scarpe del fratello della vittima.
L’uomo sosteneva che venisse da un muro, che aveva scrostato durante i lavori di ristrutturazione della nuova casa appena acquistata. Sherlock la pensava diversamente. Il fratello era il suo indiziato numero uno, combaciava tutto alla perfezione, tutti i pezzi del puzzle erano allineati perfettamente a formare il quadro generale e quel semplice esperimento gli avrebbe dato la soluzione che cercava (e la prova d’accusa che stava cercando Lestrade, ovviamente dalla parte sbagliata).
Il reagente cominciò subito a sfrigolare, provocando una reazione chimica con la goccia di vernice sciolta in base neutra. Mentre riponeva la pipetta sul tavolo, qualcuno bussò e la porta del laboratorio si aprì.
Sherlock lanciò uno sguardo in direzione dell’ingresso solo per sincerarsi di chi fosse. Usare a scrocco il laboratorio di un ospedale universitario aveva l’inconveniente nel fatto che non fosse suo. Era normale che i legittimi occupanti entrassero a loro piacimento (su questo non poteva farci proprio niente).
Come previsto era Mike, ma non era solo. Era accompagnato da un uomo – basso rispetto alla media, zoppo, taglio di capelli e portamento di stampo militare, ferito in azione? Ancora troppo vago. Abbronzato, in vacanza? In missione in Medio Oriente? Troppo presto per dirlo. Anello d’argento al dito, abbastanza largo come fattura, particolare interessante. Vestiti normali, usati ma non sgualciti o dimessi, classe media, introito modesto, disoccupato – che sembrava conoscere.
Distogliendo lo sguardo con noncuranza prese in mano il vetrino e lo mosse con movimenti circolari, osservando bene la reazione. Aveva cambiato colore. Presenza di ferro, dunque. La vernice non proveniva da un muro, ma da uno strumento che aveva un’anima di ferro che si era ossidato con il tempo. Come un cancello... o una scala.
Nel frattempo, il nuovo arrivato si fermò alla fine del tavolo, guardandosi intorno.
« Un po’ diverso dai miei tempi » commentò.
« Non sai nemmeno quanto » rispose Mike.
Istruito al Barts, medico, medico militare.
« Mike, posso prendere in prestito il tuo cellulare? Sul mio non c’è segnale » disse Sherlock sedendosi, il proprio cellulare in mano.
« Cosa c’è che non va con il fisso? » domandò Stamford in risposta.
« Preferisco gli SMS » ribatté velocemente lui, come se fosse ovvio.
Il nuovo arrivato li guardava in silenzio. Sherlock lo osservò con la coda dell’occhio.
Postura diritta, bene bilanciata, è fermo in piedi ma non si appoggia eccessivamente al bastone e non chiede una sedia. Zoppia psicosomatica?
« Scusa, è nel mio giubbotto » gli rispose al contempo Mike, facendo un cenno distratto al corridoio. Lo aveva lasciato in ufficio, probabilmente, appeso all’attaccapanni insieme al suddetto giubbotto.
Stava quasi per sbuffare seccato, quando il (l’ex?) soldato prese parola.
« Ecco, tenga... » cominciò, estraendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni: « usi il mio ».
« Oh... grazie » rispose Sherlock, alzandosi e dirigendosi verso di lui.
Mike decise che era il momento buono per le presentazioni. « Lui è un mio vecchio amico, John Watson ».
Quando gli tese il telefono, e la manica della camicia si alzò a sufficienza, Sherlock dovette reprimere l’istinto di alzare l’angolo destro delle labbra. Aveva il quadro completo.
Medico militare, in missione in Medio Oriente, ferito in combattimento ma non alla gamba, zoppia psicosomatica, quasi di sicuro ha un terapeuta che lo segue, Disturbo da Stress post-Traumatico. Classe media, disoccupato, probabilmente dimesso da poco, vive con la pensione dell’Esercito. Oh. Sul serio Mike? Un coinquilino? Ecco perché l’hai portato qui. Un rischio però, da sotto l’anello si vede il bordo bianco di un cerotto; è un BCE. Mike non sembra saperlo. Notevole che abbia una formazione al Barts con una condizione simile.
Prese il telefono, le loro dita si sfiorarono, e rigirandoselo brevemente lo fece scattare, cominciando a scrivere l’SMS.
Cellulare nuovo modello, troppo costoso per lui, non se lo può permettere. Un regalo. Ha qualcuno che vuole rimanere in contatto. C’è un incisione sul retro, si sente con le dita, e prima l’ha letta di sfuggita. “Harry Watson da Clara xxx”. Tre baci significano legame affettivo, il costo del telefono un legame profondo, dunque una moglie. Una moglie che l’ha lasciato visto che ha dato il telefono al fratello, se ne voleva liberare. Sentimentalismi. La cover è graffiata, così come l’entrata di ricarica: mano instabile, alcolizzato? È un salto nel buio, ma potrebbe essere. Lui non approva, forse sia l’una che l’altra cosa, ed ecco perché non chiederà aiuto.  L’unico dubbio...
« Afghanistan o Iraq? ».
Mike tirò fuori la sua espressione furba, come se attendesse quel teatrino da quando aveva messo piede all’interno del laboratorio. Watson sembrò semplicemente colto di sorpresa.
« Mi scusi? » chiese infatti.
« Qual’era, quella in Afghanistan o quella in Iraq? » specificò subito lui, rendendo più intuibile la domanda e sperando in una risposta rapida che avesse finalmente messo fine alla sua catena di ragionamenti su quell’individuo.
Il medico esitò qualche istante, guardando prima lui e poi Mike, prima di rispondere.
« In Afghanistan. Scusi, ma come faceva a... »
« Ah, Molly! Il caffè, grazie » lo interruppe lui, chiudendo il cellulare e restituendolo a Watson prima di afferrare la tazza di caffè portato dall’anatomo-patologa, appena entrata nella stanza.
« Cos’è successo al rossetto? » domandò alla donna.
« Non mi si addiceva » rispose lei, torcendosi le mani.
« Davvero? Secondo me era un gran passo avanti, la tua bocca è troppo... piccola, ora » espresse la sua opinione, tornando a sedersi al tavolo e sorseggiando il caffè.
« Va bene... » pigolò Molly, uscendo dal laboratorio.
Appoggiando la tazza sul tavolo e cominciando a scrivere una mail sul PC del laboratorio, Sherlock decise di passare alle cose pratiche.
« Le da fastidio il violino? » domandò a John.
Mike sogghignò, evidentemente soddisfatto.
Watson rimase in silenzio un istante, prima di rispondere. « Scusi, come? ».
« Suono il violino quando rifletto, e a volte non parlo per giorni. Le darebbe fastidio? Dei potenziali coinquilini dovrebbero conoscere il peggio l’uno dell’altro » spiegò, rivolgendosi ora direttamente a lui.
Watson sembrò decisamente sorpreso. « Gli... gli hai parlato di me? » chiese a Stamford.
« Neanche una parola » rispose quello.
« Chi ha parlato di coinquilini, allora? » chiese John, questa volta rivolto a lui.
« Io. L’ho detto a Mike questa mattina, che sono un coinquilino difficile da gestire » cominciò, dando le spalle a Watson ed infilandosi il cappotto: « e ora eccolo qui, appena tornato dalla pausa pranzo con un vecchio amico chiaramente appena congedato dal servizio militare in Afghanistan. Non era così difficile da capire ».
« Come faceva a sapere dell’Afghanistan? » domandò John, ora più attento che sorpreso, quasi diffidente. Tipica reazione.
Sherlock ignorò la domanda. « Ho messo gli occhi su un bel posticino in centro a Londra. Insieme dovremmo essere in grado di permettercelo. Ci vediamo lì domani sera alle sette in punto. Scusi, sono di fretta, ho dimenticato il frustino da fantino in obitorio » disse, controllando velocemente il cellulare prima di metterselo in tasca e passare oltre John, ancora fermo in piedi.
« Tutto qui? » domandò poi, prima che uscisse.
Sherlock si allontanò dalla porta con un passo, un movimento fluido derivato dalla camminata che non aveva interrotto. « In che senso? » chiese a sua volta.
« Ci siamo appena incontrati e andremo a vedere un appartamento » disse, nascondendo però una domanda nella frase.
Sherlock si guardò intorno, prima di rispondere. « È un problema? ».
Watson sorrise, incredulo, poi tornò nuovamente serio. « Non sappiamo nulla l’uno dell’altro. Non so dove ci dovremmo incontrare e non so neppure il suo nome » disse, il carattere del soldato finalmente in vista.
Se l’era cercata.
« So che lei è un medico militare tornato a casa invalido dall’Afghanistan. Ha un fratello che si preoccupa per lei, ma lei non vuole chiedergli aiuto perché non lo approva, forse perché è un alcolizzato o più probabilmente perché di recente ha lasciato la moglie. E so che il suo terapista pensa che la sua zoppia sia psicosomatica, e temo abbia perfettamente ragione. Credo possa bastare, no? ».
Lo sguardo di John Watson era passato dal dubbioso all’incredulo nell’arco di tutto il discorso, per poi assestarsi in una serietà sbalordita. Sherlock decise che come dimostrazione poteva essere abbastanza e si girò di nuovo, raggiungendo la porta. Salvo poi fermarsi, e aggiungere:
« Il mio nome è Sherlock Holmes e l’indirizzo è il 221B di Baker Street. Buo– ».
Fu interrotto prima che potesse terminare la frase.
« “Sherlock”? » scattò improvvisamente Watson, le sopracciglia aggrottate in un’espressione stupita.
Holmes non fu attratto dalla reazione. Molte volte le persone alzavano un sopracciglio a sentire il suo nome, così insolito e di vecchio stampo, dopo trent’anni ci aveva fatto il callo. Ciò che gli impedì di dare una risposta secca e volare fuori dal laboratorio fu l’espressione negli occhi di John Watson, che dietro la sorpresa nascondevano qualcos’altro. Qualcosa che non sapeva assolutamente definire.
Ma si fermò comunque.
Perché non era possibile che il suo nome fosse sul dito di qualcun altro... o sì?
« C’è qualche problema? » domandò allora.
L’espressione di John cambiò così come poco prima, trasformandosi in uno sguardo noncurante. « Scusi, è solo un nome insolito, ecco tutto » liquidò, apparentemente tranquillo.
Forse si era sbagliato ed era stata davvero una reazione dovuta alla stranezza del nome. Forse.
Sherlock annuì lievemente, facendo un cenno con il capo a Mike e, salutando con un « Buon pomeriggio » uscì finalmente dal laboratorio a passo sostenuto.
Interessante, quel John Watson.
 
 
 
Aprì la porta della stanza che aveva in affitto alla pensione militare, richiudendosela alle spalle con mente assente.
Il suo cervello era completamente vuoto. Come se avesse ricevuto una scarica, una sinapsi più potente del solito, ed esso fosse andato in cortocircuito, e fosse in attesa di essere riavviato di nuovo.
SherlockHolmes.
Certo, poteva non essere lui. Ma quanti “Sherlock” esistevano in Gran Bretagna? Una decina? E quanti sotto i cinquant’anni? “Sherlock” non era un nome comune, di sicuro non usato frequentemente.
Era stato come trovarsi davanti un vecchio compagno di classe che lo prendeva sempre in giro. O un compagno di squadra che non aveva trovato impiego più valido per la sua adolescenza se non passandola a sfotterlo. Aveva avvertito l’istinto di tirargli un pugno, la mano sinistra prudere, la ferita sul dito bruciare più che mai.
“Sherlock”, la sua carne lesa gridava, “Sherlock”, eccolo qui, “Sherlock”. Il nome alla fine di tutti i tuoi incubi.
Ma John non lo aveva odiato. Se l’era quasi aspettata, l’ondata di puro risentimento salirgli dallo stomaco e rimbalzargli nel petto, andando su per la gola, su fino al cervello. Ma non era successo.
Lui non odiava Sherlock Holmes.
L’istinto gli diceva che era lui, ma la ragione insisteva a dirgli che non poteva provarlo. E non avrebbe mai potuto.
Lui era un BCE, e Sherlock un Bondless. Non portava alcun anello, lo aveva notato mentre mandava il messaggio con il suo cellulare, e non aveva nessun nome sul dito. Le regole del Legame per loro non valevano, non scattava proprio niente.
Per molti sarebbe stata una prova inoppugnabile... d’altronde combaciava tutto in modo lampante: un Bondless e un BCE con il suo nome inciso sulla pelle. Rifiutante e rifiutato. Una commedia poco divertente che li aveva portati l’uno di fronte all’altro per la durata di dieci minuti in cui lui era stato vivisezionato come una rana a lezione di biologia.
E avrebbe dovuto essere il suo... coinquilino?
Le labbra di John si piegarono in un sorrisetto sarcastico.
A quanto pareva la vita non era stata già abbastanza stronza. La Natura “madre e matrigna” con lui era stata solo una gran puttana e basta. E non perdeva il vizio.
Sospirando, tirò fuori il cellulare dalla tasca, selezionando l’icona dei messaggi.
Aveva chiesto a Stamford chi fosse Sherlock Holmes, ma lui non era riuscito a dirgli granché. Gli aveva detto che era un chimico ma non aveva mai preso la laurea, che si era ritirato dall’università prima di discutere la tesi ma dopo aver seguito tutte le lezioni del corso. Il suo lavoro consisteva nel collaborare saltuariamente con la polizia – cosa già dubbia di per sé – e che grazie ad alcuni agganci famigliari aveva accesso ai laboratori del Barts per le analisi.
Praticamente non aveva risposto a niente. Sherlock Holmes sembrava di più, molto di più, e bastava solo uno sguardo, bastava ascoltarlo solo una volta per capirlo. Sembrava una di quelle persone che, passato lo shock, si amano o si odiano senza avere il lusso di una via di mezzo.
E lui, stranamente, anche se avrebbe dovuto, anche se ne aveva tutte le ragioni... non lo odiava.
Aprì i messaggi inviati, ritrovando velocemente quello digitato da Holmes poche ore prima ed inviato ad un numero sconosciuto che evidentemente l’altro sapeva a memoria.
Se il fratello ha una scala verde, arresta il fratello. – SH
Chi era, Sherlock Holmes? Cos’era? Avrebbe dovuto presentarsi a Baker Street il giorno dopo? Avrebbe dovuto lasciar perdere e cercarsi un’altra sistemazione? Avrebbe dovuto chiudere lì quell’esperienza, evitare di tirare troppo la cinghia della sorte, scomparire dalla vita di Sherlock Holmes facendo sì che Sherlock Holmes sarebbe sparito dalla sua così come ci era entrato?
Senza rimettere in tasca il cellulare, alzò lo sguardo sul computer. Afferrò meglio il bastone e, facendosi forza per alzarsi dal letto, si diresse alla scrivania.
Lo accese, si collegò ad Internet, aprì Google.
E sulla barra di ricerca digitò “Sherlock Holmes”.
 
 
 

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