Capitolo 3: Andante grazioso

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Era stato come inscenare una tragedia.
Reclutare gli attori, preparare la scenografia, studiare il copione. Silenzio in sala. Su il sipario.
Era stato fin troppo bravo, ma non era sicuro che ciò che si era ritrovato fra le mani alla fine della sceneggiata fosse una vittoria.
Sparito dal mondo. Era bastato un trucco di magia e un referto del coroner. Per fare tutto ciò, Molly era stata essenziale.
Molly.
Non aveva più aperto bocca da quando Sherlock le aveva spiegato il piano, facendo ogni singola cosa nel più completo silenzio. Era stato con mani tremanti che gli aveva passato i vestiti di ricambio dopo la caduta – i suoi dovevano esser tenuti come prove e riconsegnati, successivamente, a Mycroft per non destare dubbi – e faticava a trattenere le lacrime quando, accompagnandolo all’uscita automezzi, lo aveva lasciato uscire sotto la pioggia.
Non poteva biasimarla. Gli aveva chiesto di inscenare il suo suicidio e proclamare la sua morte e, più di tutto, di mantenere il segreto della sua premeditata sopravvivenza fino a quando non sarebbe stato il momento (e nemmeno lui sapeva quando questo momento sarebbe giunto). Per lui non sarebbe stato un problema, oggettivamente, ma supponeva che le persone normali – le persone come Molly – trovassero nelle grosse menzogne, nelle bugie che causano dolore, la vera difficoltà del silenzio. Qualcuno una volta gli aveva detto che tutti aspirano alla catarsi,1 ed è per questo che le persone si aiutano l’un l’altra: per perdonare qualcosa a se stesse.
Tutto stava nel crederci.
Ora, nel cuore di Londra con indosso vestiti in cui non si sentiva minimamente a proprio agio – jeans, felpa grigia con cappuccio, scarpe da ginnastica –, l’unica cosa che gli rimaneva di quella giornata erano flash confusi che cercava con tutte le sue forze di tenere fuori dai propri pensieri.
Sentiva la sua mente pronta a scivolare in quella sorta di strano limbo che intercorre fra l’arrivo al giro di boa e l’inizio della seconda metà della corsa; quel momento in cui ci si piega sulle ginocchia e si prendono grandi boccate d’aria tentando di convincersi che la fatica è niente, il dolore è niente, il sudore è niente, la sofferenza è niente a confronto della soddisfazione di tagliare il traguardo.
Aveva bisogno di riflettere, riorganizzare, mettere in ordine le informazioni che, chiuse a chiave nel salone del suo mind palace, minacciavano di fargli esplodere il cervello non appena libere. Aveva bisogno di un luogo dove avrebbe potuto lottare contro la frustrazione senza attirare l’attenzione, dove porsi le domande scomode e darsi risposte ancora più ingombranti. Dove permettere a se stesso di cucirsi addosso gli ultimi pezzi di quell’identità che aveva gettato via ore prima (insieme a tutta la sua vita).
Un posto dove pensare a John e permettere a se stesso di sentirsi male.
Quel posto esisteva e corrispondeva ad un indirizzo di Clapham che Molly gli aveva scritto sull’angolo strappato di foglio a quadretti.
In realtà non credeva che fosse ancora a Londra, quando aveva dato il suo nome a Molly. Avevano perso i contatti dopo l’università, interrotti di netto senza nemmeno un saluto, e lui aveva fatto quello che faceva sempre con le cose che non avevano importanza: ne aveva chiuso il ricordo dentro un barattolo e lo aveva messo sullo scaffale del “potrebbe tornarmi utile”, dimenticandosene.
Solo saltuariamente tornava in quella stanza del mind palace, alla ricerca di chissà quale ricordo, e passandoci davanti si fermava a guardare il piccolo vasetto di vetro, sfiorandolo con gli occhi senza mai toccarlo. Un gesto fatto per caso che però gli faceva arricciare l’angolo delle labbra (e allora sì, forse era stato importante almeno un po’, almeno per un po’).
Finché quel nome non era stato l’unica possibilità d’appello.
Il nome che ora, scritto sulla cassetta delle lettere di una tipica casa a schiera londinese, dai muri color Terra di Siena e il tetto spiovente, era proprio davanti ai suoi occhi.
Stringendosi nelle spalle piene di umidità e fradice di pioggia, suonò il campanello. La porta si aprì quasi istantaneamente.
Victor Trevor.
Non era cambiato di una virgola. Sembrava di vedere lo stesso ragazzo che, all’università, aveva sul comodino le foto del suo Bull Terrier accanto a quella della sua famiglia.2 Forse i capelli erano leggermente più corti, ma sempre del medesimo color biondo ramato, e le spalle si erano fatte più squadrate.
Si guardarono per quello che sembrò un minuto intero, uno in pantaloni e camicia sulla porta di casa sua, l’altro con il cappuccio bagnato di una felpa a coprirgli i capelli imbrattati di sangue secco. Tutto il tempo trascorso insieme era racchiuso in quegli occhi e in quel silenzio, sporcato dai rumori di sottofondo di una città che non dorme mai.
Fu con un cenno secco del capo che Victor fece un passo indietro, invitandolo ad entrare con la mano. Sherlock aprì il cancelletto d’ingresso e, in tre lunghe falcate, entrò in casa a testa bassa.
 
Inizialmente non si dissero niente. Victor si limitò a dargli asciugamani e vestiti di ricambio per poi indicargli il bagno, dove Sherlock passò venti minuti buoni a fissare il suo riflesso allo specchio, ascoltando il silenzio che regnava nella stanza così come nella sua mente. Era infreddolito e stanco, strisce di sangue macchiavano la pelle del suo viso e del suo collo, e gli occhi erano rossi per tutto il trambusto e per il trauma subito che, nonostante le precauzioni prese, non era limitato. Ora che era al sicuro, e l’adrenalina stava cedendo il passo alla spossatezza, non c’era un singolo muscolo che non gli facesse male, e un ematoma esteso stava cominciando a formarsi sul braccio sinistro, che aveva usato come perno per atterrare sul marciapiede.3 Dopo un sospiro decise di fare la doccia, cancellando dal suo corpo almeno una parte di quei segni.
Fece in fretta, lavandosi i capelli e la pelle con i prodotti che trovò all’interno. Si asciugò alla bene e meglio, frizionando i capelli ricci con l’asciugamano senza usare il phon, e infilatosi i vestiti di ricambio (pantaloni neri di una tuta e una T-shirt grigia, Victor si ricordava con cosa gli piacesse dormire, a quanto sembrava) tornò in cucina.
Victor era impegnato a preparare il tè. Lo accolse con un sorriso gentile quando varcò la soglia, scalzo e con i capelli umidi, indicandogli il tavolo con un cenno del capo. Aveva preparato un paio di sandwich e, a giudicare dall’odore, del tè.
Lo stomaco di Sherlock si ribaltò, ma lui non lo diede a vedere. Si sedette alla sedia davanti alla quale era stato appoggiato il piatto con i panini ma, com’era prevedibile, non li toccò nemmeno.
« Non hai fame » disse allora l’altro, finalmente, aggiungendo al tè fumante zucchero e latte.
La sua voce era esattamente come si ricordava, esclusa la sfumatura di preoccupazione che riuscì a percepire. « No » rispose lui, anche se quella di Victor era stata più una constatazione che una domanda.
L’altro ridacchiò come se se lo fosse aspettato, prendendo le tazze e raggiungendolo al tavolo. Solo quando gli posò davanti la sua, Sherlock notò l’anello d’oro all’anulare.
« L’hai trovato? » domandò, senza specificare di cosa parlasse. Victor era sempre stato abbastanza bravo nel capire di cosa parlasse.
Ed infatti non lo deluse. Seguì lo sguardo di Sherlock al proprio anello e, stendendo di riflesso le dita, annuì con un sorriso. « Chris. Lui ha trovato me » disse, alzando lo sguardo: « siamo sposati, ad agosto saranno 4 anni. È architetto, e ora come ora sta lavorando a Nuova Delhi. Io insegno, sai? Fisica, all’università. Passo sei mesi in Inghilterra e sei in India. Beh, esclusi i fine settimana e le vacanze » disse, chiacchierando completamente a suo agio, come se non si fossero persi l’un l’altro da quasi dieci anni.
« E tu? » chiese poi, prendendo un sorso di tè. « Hai trovato qualcuno per cui vale la pena? ».
Probabilmente avrebbe risposto, Sherlock, se il pensiero di John non fosse stato così violento da bloccargli il fiato in gola. Non l’aveva visto dopo la caduta, quando per sembrare morto si era procurato una sincope, ma lo aveva sentito urlare il suo nome prima del volo, e ciò che aveva sentito in quella voce si era scavato un posto al centro esatto del suo petto, torturandolo con spilli ed aghi ad ogni respiro.
Non rispose alla domanda, ma senza accorgersene si sfregò con il pollice destro l’anulare sinistro. Dato che aveva le mani appoggiate sul tavolo, fu un gesto che Victor notò.
« Se non ne vuoi parlare... » cominciò, ma Sherlock lo interruppe.
« John » disse, prendendo un respiro profondo. « Si chiama John ».
« John H. Watson » confermò Victor: « seguo il suo blog. Siete diventati piuttosto famosi ultimamente » commentò.
Sherlock alzò lo sguardo dalla tazza di tè che non aveva intenzione di bere, fissandolo per un attimo in quello sereno e tranquillo di Victor. Non sapeva niente della congiura, del suo nome screditato, di tutto ciò che era successo negli ultimi due giorni. L’articolo della Riley sarebbe uscito solo la mattina successiva – così come i titoli su qualsiasi altro quotidiano – dunque non aveva motivo di dubitare di lui. Non ancora.
Si limitò, per questo, a rispondere con un « già ».
« Non giudicarmi, ma ho sempre sperato che fra di voi ci fosse qualcosa di... più. Di intimo » disse, bevendo un altro sorso di tè.
Sherlock sospirò di nuovo, scuotendo il capo. « È un fraintendimento comune, Victor » commentò solamente.
Gli occhi dell’altro saettarono di nuovo verso di lui. « Niente? Niente, niente? » domandò, curioso.
Sulle labbra di Sherlock balenò il fantasma di un sorriso. « Mi ero dimenticato la tua inutile passione per il gossip » disse, glissando con classe.
« Beh, sapere tutto di tutti era una delle mie specialità, non ricordi? » ironizzò Victor, ma si accorse subito che strappare un sorriso a Sherlock, uno di quei sorrisetti strafottenti a mezza bocca, quella sera era impossibile.
Sherlock non aveva voglia, di sorridere.
« Peccato, Sherlock. Sembra una brava persona » aggiunse solamente.
« Lo è » confermò. Sono io quello sbagliato.
Un silenzio leggero ma malinconico si dilatò nella stanza, accogliendo solo i rintocchi dell’orologio a muro. Silenzio che venne spezzato di nuovo da Victor, la cui voce era tornata seria e preoccupata.
« Sherlock, cos’è successo? » domandò, osservandolo: « la telefonata della signorina Hooper è stata breve, ma sembrava che fosse sull’orlo del pianto. Quando ha detto il tuo nome ho pensato al peggio... » disse.
Holmes evitò di guardarlo, tenendo gli occhi fissi su una venatura del tavolo. Non aveva voglia di spiegare, di ripercorrere con la voce – e con la mente – quelle ultime, estenuanti giornate; non aveva il coraggio di spiegargli cos’avrebbe trovato sui giornali l’indomani mattina, a cosa avrebbe dovuto credere, convincerlo che non fosse un rapitore né un assassino, né tantomeno un impostore.
Spiegare era lungo, impiegava tempo ed energie che lui non aveva più. Per una volta nella sua vita, una volta sola, il suo unico desiderio era di stendersi, chiudere gli occhi e rimandare tutto di qualche ora.
« Lo vedrai domani mattina sui giornali » gli disse dopo alcuni istanti di silenzio: « e crederai a ciò che vuoi ».
Victor, lo sguardo ancora fisso su di lui, assottigliò gli occhi, pensieroso. « So già a chi credere » esordì poi, la voce sicura e perentoria.
Sherlock non ebbe la forza di replicare, ma annuì, riconoscente.
 
 
 
 
Non aveva mai capito l'espressione "come se non fosse nel suo corpo".
La usavano molto spesso nei romanzi (e lui ne aveva letti parecchi), ma non era mai arrivato a capirne il concetto. Forse perché era sempre riuscito ad essere padrone di se stesso, nel bene o nel male, o forse perché l'aveva spesso considerata una definizione troppo strana per essere reale, troppo artefatta.
Tuttavia, seduto a quel tavolo d'acciaio, in una sala interrogatori di New Scotland Yard, non avrebbe potuto trovare parole più adatte di quelle per descrivere come si sentisse.
Come se il corpo non fosse il suo, ma solamente in prestito. Come se non stesse davvero vivendo in quel momento, respirando in quel momento, pensando quel momento. Come se guardasse se stesso dall'esterno e non potesse far altro che provare una profonda pena.
Pover'uomo ridotto allo stremo, la schiena curva e le spalle pesanti. Pover'uomo alla deriva. Pover'uomo.
Non riusciva ancora a capacitarsi di ciò che aveva visto. Oggettivamente lo sapeva, la propria mente aveva capito e catalogato l'accaduto per quello che era: Sherlock si era buttato dal tetto del Barts.
Ma c'era qualcosa in lui - una parte di lui - che non aveva voluto guardare. Che non voleva ricordare. Che si rifiutava di mettere in fila le parole e dirlo ad alta voce, ammettendo la concretezza di ciò che era successo qualche ora prima.
Poter'uomo che ancora non voleva crederci.
Alzò lo sguardo dal tavolo solo quando la porta dall'altra parte della stanza si aprì e da essa entrò un uomo, cravatta nera e camicia bianca sgualcita con le maniche arrotolate fino ai gomiti, portando con sé un fascicolo di cartoncino giallo e una zaffata di odore di sigaretta. Aveva i capelli neri e corti, spettinati come chi é abituato a passarci spesso le dita in mezzo, e la faccia di una persona che nelle ultime ore aveva affidato la propria esistenza alla caffeina.
« Dottor Watson, io sono il Detective Inspector Aberline » si presentò, sedendosi nella sedia di fronte: « prima che lei lo chieda: no, non siamo parenti. Il mio cognome si scrive con un sola "b" » aggiunse, probabilmente per prevenire una domanda che in molti gli facevano ma che John non aveva la minima intenzione di porre.
Capì a cosa si riferisse solo dopo; l'Ispettore Abberline, nel 1888, fu il poliziotto di Scotland Yard assegnato al caso dello Squartatore.
In quel momento non gliene poteva importare di meno, della sua mancata omonimia grammaticale. Lo osservò con sguardo stanco e vacuo, separando le labbra per la prima volta da quella che sembrava un'eternità; dovette umettarle con la lingua, prima di parlare.
« Dov'é Lestrade? » domandò ma quasi si stupì quando la voce si rifiutò di uscire, se non in un sussurro stentato.
Aberline, accavallando le gambe sotto al tavolo e mettendosi comodo, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un I-phone e un pacchetto di sigarette. John dovette distogliere lo sguardo - la stessa marca di quelle di Sherlock.
« L'ispettore Lestrade non si occupa di questo caso. Per ovvi motivi é stato momentaneamente sospeso dl servizio » disse distrattamente, trafficando per un secondo con le impostazioni del registratore dello smartphone: « mi permette di registrare la nostra conversazione, dottor Watson? » chiese poi.
John annuì.
Il detective fece partire la registrazione e si portò il cellulare vicino alla bocca. « Registrazione dell'interrogatorio del dottor John Hamish Watson, 15 giugno 2011, ore 20:42. Conduce l'interrogatorio il qui presente, Detective Inspector Aberline » disse a chiare lettere, appoggiando poi il telefono sul tavolo in mezzo a loro.
Stava per porgli la prima domanda, ma John non glielo permise, anticipandolo.
« Perché mi trovo qui? » chiese, il tono duro e spossato, decisamente non in vena di giocare o di perdere tempo su delle futilità.
Aberlineafferrò il pacchetto di sigarette, estraendone una e l'accendino. « Le dispiace se fumo? » domandò.
John non mosse un muscolo per negare o acconsentire; Aberline si accese comunque la paglia, ignorando il divieto di fumare in luoghi chiusi ove non consentito.
« Fino a qualche ora fa era qui come testimone, dottor Watson. Come lei ben sa, il principale sospettato di un caso di rapimento, e potenziale serial killer, si è suicidato oggi pomeriggio e lei è l’ultima persona con cui Sherlock Holmes ha parlato » disse l’ispettore.
John chiuse gli occhi ancora prima che finisse la frase.
Strinse i denti quando una poco famigliare ondata di dolore minacciò di sopraffarlo. Sherlock non era né un rapitore né un serial killer! Come sipermettevano di accusarlo senza prove? Senza un’indagine approfondita? Era tutto un piano di Moriarty, di un Moriarty che era reale, perché non riuscivano a vedere? Come si permettevano di infangare il suo nome dopo tutto quello che aveva fatto per loro?
Si sentì sull’orlo di perdere il controllo ma ricacciò tutto dentro di sé.
Deglutendo, annuì in silenzio. « Cosa significa “fino a qualche ora fa”? » aggiunse poi, con voce bassa ma seria.
« Lei ha sulla testa un paio d’accuse abbastanza pesanti, dottore » disse quello, aprendo la cartelletta ed estraendone un foglio con il logo della Polizia in alto al centro: « aggressione a pubblico ufficiale e resistenza all’arresto. Fortunatamente per lei non perseguibili fino a nuovo ordine, date le circostanze, ma proseguendo con la normale indagine di routine abbiamo trovato questo... » pronunciò, estraendo un secondo foglio.
Un documento che conosceva bene e che già una volta aveva visto.
Una copia del suo certificato personale, fotocopiato e riconosciuto con un timbro dall’ufficio anagrafe, con una frase evidenziata in giallo.
 
S.I.N.: Broken Connection Entity (“Sherlock”)
 
John non poté fare a meno di arricciare il naso davanti a quelle parole, che tornavano a tormentarlo dopo anni dall’ultima volta che le aveva viste.
Chissà perché, sapeva già dove Aberline volesse andare a parare.
Alzò lo sguardo su di lui, rimanendo in silenzio. Se all’inizio aveva considerato il D.I. come un suo pari – con una divisa, certo, ma sempre un suo pari, una persona esattamente come lui – ora i ruoli erano cambiati; per quanto potesse cercare di vivere senza pensarci, o di nasconderlo per non doverne affrontare le conseguenze, lui era un BCE e, come tale, si sarebbe sempre trovato in una posizione di intrinseca inferiorità rispetto a tutti coloro che, per nascita, avevano la fortuna di avere un’Anima Gemella a desiderarli.
Aberlineinarcò un sopracciglio al suo sguardo decisamente poco amichevole. Indicò poi la fotocopia del certificato con due colpetti del dito indice, soffiando fuori una nuvola di fumo. « Questa mi è nuova » commentò.
John non distolse lo sguardo e non fece nulla per addolcirlo. Perseverò nel suo ostinato silenzio.
« A dire il vero, è nuova a molta gente. Quando ho chiesto informazioni al D.I. Lestrade mi sono sentito rispondere, ed era sincero a giudicare dall’espressione stupita, che non ne sapeva niente. Così ho fatto una veloce ricerca, e mi sono imbattuto in un’interruzione... no, un trasferimento, al quarto anno di Medicina, dalla London University all’Accademia Militare della RAMC. Una scelta peculiare, soprattutto per uno studente con voti eccellenti come i suoi. Mi sono chiesto il perché e, parlando con l’addetto all’ufficio anagrafe, sono venuto a sapere che lo stesso anno il Comitato Direttivo della London University richiese una copia dello stesso certificato che ora le sto mostrando. Coincidenza? Non credo » disse, facendo una pausa per portarsi di nuovo la sigaretta alle labbra e aspirare una boccata di fumo.
Watson seguì i movimenti con gli occhi, ma ancora non aprì bocca. Stava aspettando tutt’altro. Attendeva che arrivasse al punto.
Aberlinelo fissò negli occhi per qualche istante prima di porre la prima di molte domande: « è abituato a nascondere la propria condizione di BCE, dottor Watson? » chiese, la voce supponente e derisoria.
Qualcosa, dentro John, ribollì d’impazienza. La mano destra, che ancora ricordava con piacere l’impatto delle proprie nocche contro la mascella di Gregson, cominciò a prudergli.
« Abbastanza » rispose.
« Sa che in certi casi è reato? » continuò l’altro.
John annuì.
« Può dirlo ad alta voce? » intervenne però Aberline, indicando con un cenno del mento il registratore.
« Sì » pronunciò quindi John.
« Sherlock Holmes ne era a conoscenza? » domandò poi.
A sentire il suo nome, lo stomaco gli si annodò. « Sì » affermò comunque.
« Anche del fatto che il nome sul dito era proprio il suo? » continuò.
Il medico arricciò il naso, infastidito. « Sì » sputò.
Era vicina. La vera domanda che Aberline voleva porgli era dietro l’angolo. Mancava poco.
« C’era qualcosa di romantico fra voi? » chiese però, facendo un giro ancora più largo.
E andando a virare su argomenti decisamente privati.
« Posso rifiutarmi di rispondere? » chiese, quasi del tutto sulla difensiva e decisamente a disagio.
Aberlinefece spallucce: « sì, certo, ma se posso darle un consiglio è meglio che risponda subito, piuttosto che sotto giuramento davanti ad una Corte ».
In trappola, ecco come si sentiva. Bloccato in un buco nella sabbia mentre Aberline se ne stava in piedi sul bordo ad aspettare che la marea lo riempisse. Sapevano bene entrambi che andare ad un processo, per un Ribbon, era come firmare di proprio pugno un ordine di incarcerazione. In un sistema di Common Law come quello inglese, in cui l’ultima parola spettava ad una giuria di (finti) pari – quando mai si era visto un Ribbon, o un Bondless, in quelle giurie? – i BCE venivano condannati colpevoli a prescindere del numero di prove a loro favore.
Stringendo dolorosamente i denti, rispose. « No » disse, secco.
E Aberline prese la palla al balzo.
« Ne è deluso? ».
Insinuazione. Mancava solo un sorrisetto strafottente a piegargli le labbra e John avrebbe potuto riconoscere il momento esatto in cui l’altro aveva afferrato del tutto il coltello dalla parte del manico.
Poteva mentire. Sapeva dove voleva arrivare, ed era abituato a far sembrare verità assolute le più infime bugie. Solo Sherlock era in grado di smascherarlo ancora prima che ci provasse – ma quello non era più un problema.
Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. Proteggersi non aveva più senso.
« Come potrei non esserlo, Detective Aberline? » domandò retoricamente: « amo una persona che dovrei odiare. Come potrei non esserlo? » ripeté, deglutendo e scostando finalmente lo sguardo dagli occhi del poliziotto.
Forse dovrei dire “amavo”, pensò fra sé e sé.
Se avesse potuto, Aberline avrebbe sogghignato.
« Abbastanza da essere suo complice? ».
Anche se se l’era aspettata, quella domanda lo colpì peggio di un treno in corsa, facendogli mancare un battito. Sgranò gli occhi e li riportò sul detective che, comodamente accomodato sulla sedia, prese l’ultimo tiro dalla sigaretta e si sporse per spegnere il mozzicone direttamente sul tavolo.
« Cosa sta cercando di insinuare? » domandò John con un filo di voce, suonando quasi minaccioso.
« Complicità in omicidio, complicità in rapimento, magari istigazione a delinquere? Chi lo sa. Ho tante possibilità quante sono le indagini sul suo conto che mi attendono, dottor Watson. Chi mi assicura che non sia stato lei, il grilletto che ha fatto scattare Sherlock Holmes? » chiese retoricamente.
John sentì la furia montare di nuovo dentro di sé.
Ma Aberline continuò, imperterrito. « Non credo che lei sia la mente dietro tutto questo, no. Ciò che voglio capire è se ha avuto la sua parte. In una visione d’insieme, non mi sembra normale che un ex medico militare di ritorno dall’Afghanistan con diagnosticato un Disturbo da Stress Post-Traumatico vada a vivere con una persona che per vivere risolve casi d’omicidio. E non solo, ne diventa addirittura l’assistente. Ma la cosa più interessante è che, come BCE, lei sia andato a vivere proprio con l’uomo che, potenzialmente, potrebbe essere il suo SIN. Deve ammettere che tutto ciò sembrerebbe strano anche se si trattasse di una persona normale » disse.
E furono esattamente quelle parole che fecero scattare John, ormai al limite della sopportazione.
« “Normale”?! » sbottò, raddrizzando la schiena: « Cosa ne sa lei? Cosa ne sa di cosa voglia dire trovare il proprio SIN quando si è un Ribbon? Cosa ne sa? Noi non siamo  delle pedine uscite male dalla fabbrica! Su cosa basa questa sua arroganza, sul fatto che sono un Ribbon?! » gridò, le mani chiuse a pugno contro il tavolo: « Io sono innocente, Sherlock è innocente, e nessuno, nessuno, riuscirà mai a convincermi che quell’uomo mi abbia mentito! » sbottò.
Aberline lo guardò in silenzio, l’aria di chi aveva raccolto le informazioni che gli servivano.
« Lei è in stato di fermo, dottor Watson » disse poi, alzandosi e raccogliendo le proprie cose con nonchalance: « due agenti verranno fra poco per scortarla nella sua cella. Si metta comodo ».
 
 
 
 
Victor si fermò con la forchetta a mezz’aria, intento a cuocere il bacon per la colazione. Le maniche della camicia arrotolate fino al gomito e la cravatta blu ripiegata sulla spalla, si voltò completamente verso la televisione con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati.
« Sherlock? » chiamò poi, girandosi verso il salotto solo con il capo ma non con gli occhi, che rimasero puntati sulla giornalista della BBC One.
Sherlock, steso sul divano con gli occhi chiusi e le mani unite sotto al mento, non si scompose minimamente. « Non ora » disse solo, senza muovere un muscolo.
Ma Victor non si arrese. « Sherlock! » esclamò, cercando di trasmettergli l’urgenza.
Holmes aprì gli occhi di scatto, sbuffando, per poi alzarsi e camminare a piedi scalzi fino in cucina.
Una volta posato lo sguardo sulla televisione, la sua espressione cambiò. « Alza il volume » disse a Victor e quello, raggiungendo a tentoni il telecomando, eseguì.
“È di poche ore fa la notizia che il dottor John Watson, collega e amico del detective suicida Sherlock Holmes, è in stato di fermo alla sede di New Scotland Yard con l’accusa di complicità in omicidio e rapimento di minori. Pare che durante un controllo di routine messo in atto dalle forze di Polizia subito dopo il suicidio dell’eroe del Reichenbach, i poliziotti abbiano scoperto che il dottor Watson, famoso per il suo blog, è in realtà un BCE. Le accuse sono per il momento non perseguibili a causa delle indagini tutt’ora in corso, ma una conferenza stampa verrà organizzata in serata con il Detective Inspector Aberline di New Scotland Yard, attualmente a capo delle indagini”.
Sherlock smise di ascoltare nel momento esatto in cui la giornalista passò la linea al collega, fissando lo schermo senza in realtà vederlo. Deglutì, inspirando profondamente, cercando con tutto se stesso di contenere l’irritazione che, sfruttando un momento di debolezza, poteva anche farlo correre seduta stante a New Scotland Yard.
« Victor? » disse poi.
Quello, al suo fianco, girò il capo in sua direzione.
« Mi serve un favore. Devo contattare mio fratello ».
 
 
 
 
La porta della cella si aprì con un sonoro tonfo e un rumore di chiavi, lasciando entrare la figura sempre più trasandata di Aberline.
Si guardarono, uno dalla porta e l'altro dall'unica branda presente nella cella, squadrandosi come cani che cercano un pretesto qualsiasi per cominciare a ringhiarsi contro.
Fu Aberline a mollare per primo il loro muto gioco di sguardi, spostandosi dall'uscio e facendo un cenno verso l'esterno con il mento.
« Sei libero, Watson. Ti hanno pagato la cauzione. Probabilmente anche le accuse decadranno » disse.
John rimase un attimo fermo prima di alzarsi in piedi e dirigersi verso la porta, il passo fermo ma completamente esausto. Non aveva dormito molto, in quei tre giorni, così come non aveva fatto altro che fissare il muro della propria cella sforzandosi di non piangere. Non era il luogo, non era il momento. Se doveva farlo, sarebbe stato solo davanti alla sua tomba, dove avrebbe permesso all'evidenza di schiacciare il suo autocontrollo.
Aberline lo accompagnò lungo tutto il corridoio, rimase lì mentre gli venivano restituiti i suoi effetti personali e lo affiancò di nuovo fino all'uscita. Fortunatamente non incontrò nessuno di sua conoscenza (non sapeva se avrebbe potuto sopportare di vedere Donovan o Anderson senza rischiare un'altra accusa di aggressione a pubblico ufficiale, in quel caso particolare non si fidava affatto di se stesso).
La mano bruciava, il dito sembrava volersi direttamente staccare dal resto dell'arto, e la lieve fotosensibilità era uno dei classici sintomi della febbre da infezione. Aveva bisogno di un antibiotico ma, soprattutto, aveva bisogno di farsi un bagno, sedersi e cercare di mettere in ordine almeno i successivi giorni della propria vita.
« Lei ha delle amicizie in alto, non è vero? » chiese Aberline una volta raggiunta la porta.
Watson, ancora preda della sensazione di non essere completamente in sé, si limitò a fermare il passo e a girare il volto in sua direzione. « Cosa? » chiese.
« La cauzione. E il decadimento delle accuse. L'ordine è arrivato dritto dritto da Gregson, e non ho mai visto Gregson abbandonare una causa che lo riguarda direttamente così in fretta. Questa non può essere altro che l'opera di qualcuno di importante » spiegò, il tono seccato ma più che altro esausto.
John non fece una piega. Solo uno fu il nome che gli venne alla mente, ma si guardò con attenzione dal dirlo.
Nel suo silenzio, Aberline sospirò. « Arrivederci, dottor Watson » disse, girandosi e allontanandosi.
Spero proprio di no, pensò John prima di uscire alla luce del pallido sole londinese.
Fuori dalla porta, dall'altro lato della strada, un'elegante macchia scura era ferma, probabilmente in attesa. La portiera posteriore si aprì ma John non rimase ad aspettare che la famigliare figura di Anthea comparisse sul marciapiede.
Girandosi, sé ne andò a piedi.
L'auto nera non lo seguì.
 
 
 
 

Meant to be alone [ITA]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora