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La pasticca blu era quella delle nove, la pasticca rossa quella delle undici, la pasticca verde quella delle sedici e trenta e la pasticca bianca era quella delle ventidue. "Di questo passo finirò per diventare un bidone di medicine" pensò riponendo le pasticche bianche nel contenitore al proprio posto vicino a tutti gli altri. Il sole quel giorno splendeva alto e la luce che penetrava dalle finestre altissime a prova di suicidio gli dava fastidio. Rigel odiava decisamente tanto cose e tra queste rientravano le giornate soleggiate. Il sole era accecante e caldo e in quei giorni le persone solitamente uscivano, si divertivano, andavano a mangiare qualcosa insieme. Lui invece se ne stava sempre confinato nelle quattro mura azzurre della sua stanza perché non aveva amici o qualcuno in generale che volesse davvero passare del tempo con lui tantomeno conoscerlo o invitarlo ad uscire con la propria comitiva di amici. Rigel, dunque, se ne stava da solo in camera sua a leggere un libro, a guardare un anime o una serie TV e sinceramente era felice di non avere nessuno in mezzo ai piedi, eppure quella luce continuava a dargli fastidio.

Si portò le mani sugli occhi come per ripararsi e si diresse in bagno. Nel bagno non c'era neanche uno specchio, qualcuno aveva pensato che i pazienti lì ricoverati avrebbero potuto romperlo e tagliarsi le vene e quindi avevano evitato di metterli. Quel qualcuno aveva pensato bene: se ci fosse stato uno specchio, Rigel ci avrebbe provato senza pensarci su due volte. Indossava una maglietta a maniche corte nera e le fasciature che gli avevano fatto intorno agli avambracci erano completamente esposte, bende bianche che si macchiavano a tratti di rosso quando le ferite si riapriranno. Gli altri pazienti lo avevano guardato e lo guardavano di traverso ogni volta e si fermavano come stoccafissi a fissargli le braccia. A lui non importava minimamente ma quello stare sempre al centro dell'attenzione era fastidioso, lo detestava, e detestava ancora di più quelle facce da culo impietosite che la gente gli puntava addosso.

"Ma non Alaska." Ricordò.

Alaska Yelena Lewis non gli aveva mai fissato gli avambracci, non lo aveva mai guardato con pietà e con compassione, non gli aveva parlato per dirgli "andrà tutto bene, non preoccuparti". Alaska gli aveva rubato due patatine e gli aveva parlato delle stelle, lo aveva preso per mano e lo aveva trascinato sul tetto dell'ospedale contro ogni regolamento, non lo aveva assillato perché non era loquace e non aveva criticato il suo silenzio. E lui non la vedeva da dieci giorni ed erano stati dieci giorni orribilmente monotoni e schifosi, tra lo psicologo, le crisi di sua madre e tutto il resto.

Alla fine decise, dopo essersi sciacquato bene il viso, di andare nella sala ricreativa senza un motivo ben preciso; erano le ventidue e dieci e non aveva affatto sonno, non che fosse diverso dal solito, ma quella sera anziché starsene buttato sul materasso aveva voglia di camminare un po'. Attraversò un paio di corridoi e trovò la porta della sala ricreativa già aperta, logicamente qualcun altro oltre lui doveva aver avuto voglia di evitare di fare la muffa in una stanza anemica e quindi si era diretto verso un'ulteriore stanza anemica con l'unica differenza che quella era travestita con qualche macchia di colore, una manciata di pouf, un televisore e una pila di giochi da tavola.

<Rigel!>

La voce di Alaska gli giunse da dietro le spalle accompagnata da un profumo di lavanda. Si voltò e se la ritrovò davanti con un jeans blu e una camicetta gialla. Alzò una mano in segno di saluto leggermente titubante: per quanto ne sapeva lui quella poteva benissimo essere un'illusione ottica provocata dalla stanchezza.
Lei gli sorrise e lo sorpassò aprendo per prima la porta.

<Oh menomale!> Esclamò. <È vuota.>

<Pensavo ti piacessero i posti affollati.>

Lei si sedette su un pouf e gli indicò il pouf vicino al suo facendogli cenno di sedersi. Scosse la testa e sorrise. <In realtà li detesto.>

Rigel inclinò la testa di lato con un'espressione interrogativa.

<Non li sopporto, mi mettono ansia. Mi danno fastidio i luoghi troppo affollati, dove ci sono troppe persone e ho difficoltà anche nell'istaurare delle semplici conversazioni. Preferirei passare una giornata in un eremo piuttosto che in pieno centro di New York.>

<Non si direbbe.> Disse lui. <Osservandoti non si direbbe affatto. Sei socievole, parli di cose interessanti e sembri sempre sul punto di essere pronta a prendere e partire per un viaggio senza meta.>

Lei spalancò gli occhi e gli si avvicinò di scatto. <Lo pensi davvero?>

Rigel si grattò la nuca con una mano leggermente colto alla sprovvista da quella vicinanza. <Beh, con me sei sempre stata così, sia il giorno in cui ci siamo incontrati sia sul tetto, quindi suppongo di sì.>

Lei si ritrasse leggermente e lo guardò dritto nelle iridi.

Rigel non sarebbe mai riuscito a decifrare quello sguardo.

<Oh ma questo non conta.> Disse. <Tu sei un ottimo ascoltatore, non giudichi chi ti trovi di fronte e presti attenzione alle cose che ti vengono dette, o almeno, hai l'aria di essere qualcuno che ci rimugina su per un po'. Parlare con te mi è estremamente facile, ma solo perché tu sei tu, con gli altri è più difficile.>

Lui si fermò un secondo. Alaska Yelena Lewis gli aveva detto di odiare gli spazi affollati, di avere difficoltà nell'istaurare delle conversazioni, ma non con lui. "Parlare con te mi è estremamente facile, ma solo perché tu sei tu" aveva detto. Cosa significava quel "Tu sei tu"?

Sapeva che si trattava una cosa stupida, di poco conto, una di quelle che non gli avrebbe fatto nè caldo nè freddo, eppure, ogni volta che ripensava a quella frase, una parte di lui sentiva che un qualche granello di quel magigno che si portava appresso da tanto tempo cadeva giù e scalfiva tutto il resto.

<Vediamo un film?> Gli chiese.
Rigel annuì. <Scegli tu, per me é indifferente.>

Alla fine Alaska, senza neppure conoscerlo, scelse il suo film preferito.









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