cap.2

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Si svegliò presto, come tutte le mattine a dire il vero, ricordava di essersi addormentato senza alcuna coperta su quel divano abbastanza grande da permettergli di distendersi senza problemi, eppure quando aprì gli occhi una grigia trapunta lo copriva, tenendolo al caldo. Era stato sicuramente Buck, pensò quando la strinse fra le dita e di fatti non c’era nessun altro in camera con loro, quindi chi se non il suo migliore amico. Si stiracchiò velocemente, risvegliando i propri muscoli e quando si tirò a sedere guardò verso il letto, notando un groviglio di lenzuola e una macchia scura sul cuscino. La stanza era illuminata dalla fioca luce che filtrava attraverso le tapparelle bianche, chiuse probabilmente dal castano quando si era alzato durante la notte. Controllò l'ora sull'orologio che poggiava sul muro, esattamente al di sopra della porta, erano da poco passate le otto del mattino. Raccattò la trapunta dal divano, dirigendosi verso il letto e quando sfiorò le dita del suo amico, le trovò gelate. Piazzò quindi la morbida trapunta su di lui, sperando che ancora trattenesse un po' del suo calore, e non appena essa poggiò sul suo letto, Buck ne afferrò un orlo, mugugnando qualcosa nel sonno e rannicchiandosi per bene sotto di essa. Steve sorrise nonostante la stanchezza incombesse ancora su di lui, grattandosi la nuca e distogliendo lo sguardo da quel letto per evitare di soccombere alla voglia di buttarsi su di esso, raggiungendo il suo amico per godersi quell'avvolgente calore. Decise di tornare in camera sua per darsi una rinfrescata, lasciando Buck al suo meritato riposo, ma prima doveva chiedere una cosa a Nat. Uscì dalla camera senza fare rumore, scendendo al piano inferiore in pochi minuti e quando bussò alla porta della sua amica, la risposta non tardò ad arrivare. La porta si aprì velocemente «Buongiorno Steve» la rossa si fece da parte per lasciarlo entrare «Come sapevi che fossi io?» le chiese, entrando in camera e chiudendo la porta alle sue spalle. «Ma andiamo, sei l'unico sveglio a quest'ora e sei anche l'unico che verrebbe a bussare alla porta di camera mia, apparte Clint» la ragazza rise lievemente, legando i lunghi capelli in uno chignon disordinato, ricordando al capitano per quale motivo l'avesse raggiunta. «Bhe, hai ragione. Senti Nat» la richiamò, attirando la sua attenzione, ricevendo un lieve "mh?" in risposta «potresti darmi uno dei tuoi elastici per capelli?» le chiese, strofinandosi una mano dietro al collo, imbarazzato. La ragazza si voltò di scatto, osservandolo con fare interrogativo «Certo che posso dartene uno» si avviò poi verso il bagno, aprendo velocemente la porta. Steve poté sentire vari cassetti aprirsi per poi richiudersi velocemente, numerosi oggetti spostarsi rumorosamente «Di certo non è per te, non puoi farci molto» disse, facendo un cenno con la testa ai suoi capelli scompigliati quando finalmente uscì dal bagno «Per chi è quindi?» chiese in fine, porgendogli il piccolo elastico nero, esattamente come quello che aveva usato lei pochi minuti prima. Steve lo afferrò prontamente, infilandolo poi nella tasca del suo pantalone «É per Buck» rispose «Sono lunghi e non riesce mai a tenerli in ordine» si giustificò. Nat annuì «A proposito di James» si sedette sul divano, invitandolo a sedersi al suo fianco, battendo un paio di volte il palmo della mano sul morbido cuscino «Come sta?» gli chiese poi, quando aveva finalmente preso posto. Steve la guardò per qualche secondo, sospirando subito dopo «Non ne ho la minima idea, credimi» si fermò per qualche secondo per poi ricominciare a parlare «Ma probabilmente non bene, visto ciò che è successo stanotte» si passò una mano nei capelli, pensieroso. La rossa lo guardò con la coda dell'occhio, sistemandosi meglio sul divano, chiedendogli poi con un cenno della testa di continuare a parlare. Steve gli raccontò di come non riuscisse a dormire la notte al solo pensiero che potesse accadergli qualcosa, di come la notte precedente poi, le sue preoccupazioni si fossero avverate. Gli disse semplicemente che Buck stava male e che lui l'aveva tranquillizzato, omettendo le lacrime e quei gesti che ripensandoci, gli sembrarono fin troppo intimi, ma non ci fece poi molto caso. «Soffre molto per ciò che gli è successo e credo anche che spesso abbia degli incubi. Non dorme bene Nat» le disse «È distrutto, posso vederlo. Stanotte ho avuto l'impressione che sia dimagrito ma non ne sono del tutto sicuro» Nat lo osservò per qualche secondo, annuendo comprensiva. La ragazza sapeva del siero, sapeva che per Steve sarebbe stato quasi impossibile dimagrire o perdere massa muscolare per via di esso, anche senza mettere qualcosa sotto ai denti per giorni interi. Il siero che avevano iniettato in Buck era simile se non praticamente lo stesso, in pratica si supponeva che la cosa valesse anche per lui e se era veramente dimagrito, la situazione non era delle migliori. Parlarono per un po’ quella mattina, separandosi solo quando Steve pensò di dover ritornare in camera del castano per controllare se stesse ancora dormendo o meno. Ritornò in camera sua, facendo una doccia veloce ed indossando qualcosa che lo tenesse al caldo, decidendo, almeno per quel giorno, di non allenarsi. Salutò Sam quando lo incontrò nel corridoio per ritornare alla camera di Buck, ma l'ex soldato sembrò improvvisamente ricordarsi di ciò che era successo quella notte. Ritornò infatti da lui praticamente correndo, prima che potesse raggiungere ed entrare nella camera del castano «Frena un attimo» gli disse «Mi spieghi cos'è successo stanotte?» poté vedere la curiosità e la preoccupazione nelle iridi scure del suo amico e decise di essere sincero, in fin dei conti, aveva già visto tutto. «Avevo sentito dei rumori Sam e sapevo provenissero dalle sua camera, così sono andato a controllare. Credo che» si fermò per qualche secondo, facendo spallucce «Non lo so, credo che abbia degli incubi per ciò che ha fatto nell'arco di questi settant'anni. Mi ha detto che li ricorda tutti, Sam. Tutti quelli che ha fatto fuori a causa dell'Hydra» sospirò pesantemente, passandosi una mano sulla fronte «Stavo solo cercando di calmarlo, stava male, non l'ho mai visto in quello stato» terminò la sua spiegazione, aspettando che il suo interlocutore prendesse parola. Sam lo guardò preoccupato «E quello lo definisci "stare male"? Steve avevo gli occhi praticamente chiusi per il sonno ma potevo vederlo cadere a pezzi» il capitano annuì, dandogli ragione «Come sta il ragazzone ora?» gli chiese preoccupato. Steve scosse il capo «Stava ancora dormendo quando sono uscito dalla sua camera stamattina» ricominciò ad incamminarsi a passo lento verso la camera di Buck, seguito da Sam che, a quell'affermazione, alzò un sopracciglio «Ho dormito in camera sua stanotte, non volevo lasciarlo solo» un fondo di verità in quella bugia, perché in fin dei conti voleva semplicemente averlo al suo fianco, sentire il suo respiro e sapere che fosse lì con lui. Si salutarono con un cenno del capo una volta raggiunta la camera di Buck e quando Steve ci entrò, trovò il suo amico ancora addormentato, voltato dalla parte opposta, le braccia sotto al candido cuscino. “Almeno ha il sonno pesante” pensò fra se è se, sorridendo nostalgico a quel ricordo che di punto in bianco, aveva fatto capolino nella sua mente. Tirò fuori l’elastico per capelli dalla sua tasca, mettendolo al polso in modo da ricordarsi di darlo all’amico, prima di decidere di prepararsi una tazza di caffè e Steve ringraziò mentalmente Tony, almeno per una volta, per il suo essere così soverchio in tutto, dato che se le camere non fossero state dotate di una cucina, avrebbe dovuto lasciare di nuovo quelle quattro mura. Preparò il caffè con calma, sperando, come sempre, di non combinare nessun guaio con quegli aggeggi tecnologici, anche se effettivamente li utilizzava ormai da un bel po’, controllando di tanto in tanto che il castano ancora dormisse. Proprio quando l'odore del caffè iniziò ad aleggiare nell'aria tiepida ma secca di quella camera, Buck si rigirò nel letto, aprendo gli occhi lentamente, cercando di mettere a fuoco la figura del suo amico. Lo osservò per qualche secondo, facendo mente locale, non trovando nemmeno la forza di maledire se stesso per essere crollato in quel modo. Steve si voltò verso di lui, notando finalmente i suoi occhi aperti, assonnati, gonfi e rossi per il sonno, ma probabilmente anche per gli avvenimenti di quella stessa notte. «Buongiorno» lo salutò con un cenno del capo, un sorriso appena accennato sulle labbra sottili mentre si poggiava alla cucina, osservandolo muoversi al di sotto delle trapunte. Gli rispose con un semplice mugugno, umettandosi le labbra subito dopo, iniziando a stiracchiare le gambe per cercare di risvegliare i muscoli assopiti nel tepore del letto. «Ho preparato del caffè, ne vuoi?» gli chiese, prendendo lui stesso un sorso del liquido bollente, riscaldandosi. Quando lo vide annuire, si voltò, afferrando un'altra tazza per poi versarci il restante del caffè. Gliela portò senza fare troppe cerimonie, guardandolo mentre si tirava a sedere sul materasso, le gambe ancora coperte dalle due trapunte grigie, chiare come le sue iridi, i capelli arruffati all’inverosimile. Gli porse la sua tazza e quando il castano la afferrò, sussurrando un “grazie” prese posto sul letto, sedendosi sul bordo di esso, tenendogli compagnia in quel piacevole silenzio. Lo osservò di sottecchi, mentre teneva la tazza con entrambe le mani e soffiava lievemente in essa per raffreddare almeno un minimo quel caffè, in modo da non scottarsi. «Dormito bene?» chiese a quel punto Steve, osservandolo rabbrividire lievemente nel momento in cui ingoiò il liquido bollente, annuendo poi subito dopo. Buck a quel punto notò la seconda trapunta piazzata sul suo letto, la strinse fra le dita, alzando gli occhi al cielo, realizzando cosa fosse successo «Sempre il solito…» sussurrò, tentando di nascondere un piccolo sorriso dietro la tazza bianca. Steve sbuffò divertito «Senti chi parla» prese un sorso del suo caffè, guardandolo con la coda dell’occhio, un sopracciglio alzato e non poté fare a meno di sorridere dolcemente quando, a quell’affermazione, il castano abbassò lievemente il viso, sconfitto, forse un po' imbarazzato data quella lieve sfumatura rosea che giurò di aver visto sulla sua pelle. In fin dei conti Buck aveva tutte le buone ragioni per sentirsi in imbarazzo, insomma, qualche ora prima, assonnato com’era, non ci aveva pensato due volte prima di coprirlo con quella trapunta, ricadendo velocemente in quella piccola abitudine lontana decadi, eppure così vivida nella sua mente, nelle sue membra, tanto da risultare quasi un gesto automatico. Ma pensandoci in quel momento, forse la cosa poteva risultare un gesto azzardato e dio, voleva solo tenerlo lontano dal problematico casino che era divenuto, eppure in poche ore era riuscito a rovinare tutto. Gustarono il resto del caffè in silenzio, scambiandosi qualche sguardo di tanto in tanto e dopo che Steve ebbe riposto le due tazze al loro posto, ritornò al suo fianco, osservandolo attentamente. Spostò via i capelli dal suo viso con una mano, districando dei piccoli nodi con la punta delle sue dita, stando ben attento a non tirare troppo, in modo da non provocargli dolore. «I tuoi occhi» sussurrò a quel punto, carezzando con un polpastrello la zona sottostante alla palpebra inferiore, rendendosi conto solo in quel momento di quanto fossero messi male. «Incubi, vero?» gli chiese poi, lasciando che la sua mano carezzasse la guancia del suo amico, voltandosi totalmente verso di lui, le gambe sul letto. Buck si limitò ad annuire, lasciando andare un lieve sbadiglio subito dopo, arricciando il naso e chiudendo per un attimo gli occhi, pressando inconsciamente il viso nel palmo della mano di Steve, lasciando a quest'ultimo la possibilità di sfiorare la linea decisa e tagliente della sua mandibola. Sospirò, Steve poteva capirlo, aveva lo stesso problema anche se era sicuro del fatto che il suo migliore amico ne avesse passate molte di più «Ti capisco» gli disse, sforzandosi di rimanere serio e di non sciogliersi alla vista di quel viso assonnato, postumo di un crollo emotivo «So come ci si sente. Stanotte...» si fermò per qualche secondo, abbandonando entrambe le sue mani nel piccolo spazio che li divideva «Non è stata la prima volta, giusto?» gli chiese, sperando in una risposta sincera. Buck strinse i pugni, ripensando all’ultimo periodo e a quanto i suoi incubi fossero stati frequenti, a come lo inseguivano non appena chiudesse gli occhi per un minimo di riposo. C’era così tanto sangue che spesso quando si svegliava, correndo in bagno sopraffatto dai conati di vomito, si bloccava ad osservare le sue mani, il suo corpo, per assicurarsi che fosse stato realmente un incubo e che non avesse ucciso nuovamente qualcuno. In quel momento stesso abbassò lo sguardo, ritrovandosi ad osservare le sue mani un ennesima volta, rimuginando sul suo passato, stralci di vita vissuta ma attraverso un automa. Memorie sconnesse che si accavallavano ma che man mano, andavano ad incastrarsi fra di loro, rendendo il tutto sempre più doloroso, abbandonandolo in un lenta agonia mentre stringeva le ginocchia al petto su quello stesso letto, cercando invano di dimenticare. Lo sguardo di Steve si rattristò, cogliendo il significato celato in quei piccoli gesti, andando poi a stringere le mani del suo amico fra le sue, tentando così di distrarlo da quei pensieri. La cosa funzionò, Buck uscì da quella sorta di trance, regalandogli uno sguardo fugace, pensando erroneamente che il biondo ancora aspettasse la sua risposta, inconsapevole del fatto che gliel'avesse già data. Scosse il capo, in segno di diniego «No, non è la prima volta» sussurrò, lasciando che i polpastrelli di Steve carezzassero i palmi delle sue mani in un moto circolare, rilassante quasi, osservando le dita del biondo scivolare al di sotto della sua felpa, carezzando cautamente la pelle stranamente sensibile del suo avambraccio. Forse era stata la mancanza di contatto fisico a renderla ipersensibile, o forse il non avere controllo totale sulla propria mente e il suo stesso corpo, tanto da alterarne la sua percezione. Bucky non riuscì a capire quale delle due opzioni fosse quella più plausibile, ma decise di non dar peso alla cosa e di godersi quella piacevole sensazione. Steve lo osservò arricciare istintivamente le dita, rilassandosi, sentendo il suo battito cardiaco picchiare contro la sua epidermide. Bucky era caldo, bollente sulla sua stessa pelle, l'aria che aleggiava intorno a lui era dolce, confortevole. Dio, Steve avrebbe voluto tirarlo con se sotto le due trapunte per condividere quel calore, scambiandosi il respiro, qualche parola, una risata, per poi finire addormentati come quando erano bambini, troppo stanchi per giocare ancora a nascondino con Morfeo. «La prossima volta» prese parola, osservando per un attimo il suo collo, cercando di non cedere alla voglia di abbracciarlo e di affondarci il viso «Svegliami se sei ridotto male» ci pensò su per qualche secondo «Dio no, rettifico» scosse il capo, corrugando le sopracciglia, chiedendo a se stesso cosa cavolo avesse appena detto, provocando un lieve sorriso sul volto ancora assonnato del suo amico. «Svegliami quando vuoi, se hai bisogno di parlare, anche se...non riesci a dormire e non vuoi restare solo» la sua voce arrivò estremamente dolce alle orecchie di Buck, un tono lezioso che non era abituato ad ascoltare. Non era mai stato un gran che con le parole lui, questo lo sapeva bene, ma aveva sempre fatto del suo meglio per lui, sfruttando tutto ciò che aveva assimilato da sua madre quando era solo un bambino. Il castano abbassò il capo, le sue labbra si separarono impercettibilmente e poté sentire la mano in vibranio stringere lievemente la sua. Steve lo imitò, inclinando il viso verso il basso solamente per cogliere le sue iridi incerte, titubanti, perché Buck non avrebbe mai fatto ciò che gli aveva appena detto, ne era certo. «E va bene» sussurrò sconfitto all’assenza di una risposta, sospirando subito dopo «Vorrà dire che dormirò qui in camera tua allora». Il respiro di Bucky si mozzò improvvisamente, alzando il viso per incontrare finalmente le iridi del suo amico, stringendo le sue mani, aggrappandosi ad esse «Cosa?» la sua voce ridotta a poco più di un sussurro. Steve alzò un sopracciglio, trovando quella reazione forse un po' smaccata «Abbiamo condiviso camera da letto per molto tempo Buck, non vedo dove sia il problema» gli disse ovvio, ignaro del fatto che quella reazione fosse data da ben altro motivo. Il castano si svegliava praticamente tutte le notti in preda agli incubi, tanto che a volte preferiva non dormire assolutamente, restando a guardare il soffitto o il cielo terso dalla finestra che fiancheggiava il suo letto. Più volte si era detto ed auto convinto che le cose stessero andando meglio, che tutto quello fosse finito, che presto sarebbe potuto tornare a dormire senza vedere tracce di sangue, ma in fondo, sapeva che stesse peggiorando di giorno in giorno. Più tempo trascorreva, più i ricordi di quei settant’anni riaffioravano nella sua mente, rendendolo colpevole di un altro omicidio, conscio di un ennesima tortura. Le cose stavano peggiorando drasticamente, doveva ammetterlo a se stesso e quella notte ne era stata la conferma. Non voleva coinvolgere Steve, non voleva caricargli un altro peso sulle spalle, doveva stargli lontano, in modo da non danneggiarlo con quella mera ombra che era rimasta di se stesso. Eppure sapeva che d’ora in poi sarebbe stato difficile stargli lontano, soprattutto dopo la notte precedente. Il biondo era testardo, una testa calda a dirla tutta e se Buck non l’avesse lasciato avvicinare, l’avrebbe fatto comunque, perché ancora una volta, Steve Grant Rogers voleva essere egoista, per se stesso, per il suo migliore amico. «Non credo che...» cominciò Buck, tentando di mettere su una sorta di scusa per la quale Steve avrebbe dovuto lasciar perdere quell'idea, ma venne bloccato proprio da quest'ultimo, o almeno, fu il suo sguardo a farlo. Aveva stampato sul viso un espressione furba, di chi ne sa molto più di chiunque altro, come a dirgli che qualsiasi cosa fosse uscita dalle sue labbra, non gli avrebbe dato retta, perseverando in quella sua decisione. «Io...» il castano boccheggió e Steve poté percepire il disperato tentativo di aggrapparsi ad una scusa plausibile. Sorrise «Cosa, James» lo sfidò, incitandolo con un cenno del capo ad andare avanti, leccando via dalle sue labbra il sapore di caffè. Buck lo guardò confuso, sbattendo le palpebre e corrugando la fronte: non lo chiamava mai James, suonava strano detto da Steve, colui che aveva dato un ulteriore soprannome a quello che si era affibiato da solo fin da quando era un ragazzino. La presa sulle mani del biondo si allentò e ancora una volta fu Buck ad arrendersi, osservando quel mezzo sorriso che persisteva sul volto di Steve. Conosceva tutte le sue carte, ricordava alla perfezione il terreno sul quale giocava il castano, ormai lo aveva impresso nella sua mente, in ogni parte del suo essere, non poteva farla franca in quel modo con lui. Il suo amico sospirò pesantemente, chiudendo gli occhi e sporgendosi verso di lui, andando a poggiare la fonte sulla sua spalla, riposando per un po' su di essa «Fottiti» lo sentì sussurrare, la voce ancora roca raschiava sul fondo della sua gola per via della precedente dormita, riecheggiando nella sua cassa toracica. Steve inclinò il viso, quel tanto da riuscire a poggiare la sua guancia sul capo del castano, nascondendo a se stesso un piccolo sorriso compiaciuto «Linguaggio» soffiò severo fra i suoi capelli, lasciando andare le mani del castano solo per poggiarle sui suoi fianchi, sentendolo ridere sommessamente. Steve fece altrettanto, fermandosi a pensare per un po', approfittando della posizione delle sue mani per dare una risposta a quel dubbio che gli era sorto qualche ora prima. Probabilmente ci aveva visto giusto, attento com'era, ma in ogni caso, non ne era ancora del tutto sicuro. Strinse i suoi fianchi per una manciata di secondi, cercando di non far risultare la cosa strana. Una mano scivolò infatti verso la sua schiena, nel tentativo di distrarlo da quel tocco, rendendosi conto che di fatti, poteva ormai circondare quel fianco con la sua mano. «Cavolo» sussurrò fra se e se, affondando, per quel che potè, il viso fra quei capelli. Non sapeva esattamente cosa gli stesse accadendo, o almeno, non del tutto…doveva restargli accanto in modo da capire, fungendo da ancora di salvezza come lo stesso Bucky lo era stato per lui. Ci mise un po' per riprendersi da quei pensieri, ma quando finalmente ci riuscì, lasciò una pacca dietro la schiena del suo amico «Vuoi parlarmi di ciò che hai sognato, Buck?» gli chiese in un sussurro, cercando di suonare il più cauto possibile. Non aveva pretese, non voleva costringerlo, desiderava solo fargli sapere che lui era lì, pronto ad ascoltarlo non appena avrebbe voluto parlarne. E dio, Buck lo apprezzava, era l'unico che gli era rimasto, l'unico che in quell'istante, gli aveva fatto sentire quanto fosse importante, tirandolo fuori da quella sorta di apnea in cui era rimasto nelle ultime settimane. Steve ci era dentro fino al collo, eppure, il coraggio di parlare e dirgli tutto non riusciva trovarlo da nessuna parte. Lui che gli aveva fatto da spalla in guerra, rischiando la sua vita, ma che ora non riusciva a scovare nemmeno un briciolo di quel coraggio per comporre una frase di senso compiuto. Forse si era consumato li, nel 1943, fra i fucili e quello scudo, una divisa e un campo di battaglia, una pacca sulla spalla e uno sguardo orgoglioso. Il respiro di Buck tremò, ansioso, conscio del fatto che ciò che teneva fra le mani fosse un arma a doppio taglio: dicendogli tutto, avrebbe fatto soffrire Steve, trascinandolo in quella sorta di incubo che era ormai diventata la sua mente, ma se non l'avesse fatto, a lungo andare, probabilmente il biondo ne sarebbe rimasto ferito ugualmente, perché loro due erano amici giusto? Potevano dirsi tutto, cadere e rialzarsi insieme come avevano sempre fatto. Steve attese per una risposta che in fin dei conti conosceva già, avvicinando il suo corpo a se come per rassicurarlo. «Io...è troppo, Steve» finalmente parlò «Non riesco, almeno non ora» aggiunse, socchiudendo gli occhi e mordendosi il labbro inferiore, traendo vantaggio dalla posizione in cui si trovava. Il biondo si trovò a sospirare, almeno aveva ottenuto una risposta, pensò, sempre meglio di nulla «Va bene» lo rassicurò «quando vuoi, lo sai» dichiarò, aspettando poi un cenno d'assenso da parte del castano. Carezzò la sua schiena, sorridendo lievemente quando lo sentì annuire «preparo la colazione, va a darti una rinfrescata se vuoi» gli comunicò quando il castano si staccò dal suo corpo. Steve si alzò dal letto subito dopo avergli regalato un sorriso, dirigendosi poi verso la cucina «lascia stare Steve, non ho fame» lo sentì dire. Si fermò al centro della stanza, guardandolo da sopra la sua spalla, alzando un sopracciglio. Lo vide sospirare, alzando gli occhi al cielo, soffiando una risata fra i denti «Va bene va bene, scusa» alzò le mani in segno di resa, andando poi a chiudersi in bagno. Il biondo sorrise compiaciuto, era felice, i problemi c’erano ed erano molto più che palpabili, ma in fin dei conti, aveva ritrovato Buck ed era questo ciò che contava realmente. Non gli importava quale fosse il prezzo da scontare per essere stato egoista ed avido in maniera così smodata, non gli importava cosa avrebbe dovuto affrontare, l’avrebbe fatto senza dubbio alcuno, senza rimuginarci troppo com’era solito fare. Preparò la colazione velocemente, bacon e uova, ciò che anni prima mangiavano quando avevano abbastanza soldi da permetterselo, dopo la morte di sua madre. Bussò alla porta del bagno solamente per fargli sapere che la colazione fosse pronta, sentendo l'acqua della doccia che scorreva veloce bloccarsi improvvisamente, poi un semplice “Arrivo” fare capolino dall’altra parte. Sistemò il letto, piegando quella seconda trapunta riponendola ai piedi di esso, così da tenerla sotto mano, alzò le tapparelle in modo da illuminare e riscaldare lievemente l’ambiente, per poi andare ad impiattare la loro colazione. Ripose tutto sul tavolo, fra pane e spremute d’arancia, ricordandosi improvvisamente che Buck in realtà preferisse il latte, o almeno lo preferiva quando erano dei ragazzi ma in ogni caso, per esse sicuro, poggiò sul tavolo anche il cartone del latte, osservando con soddisfazione il lavoro che aveva svolto. Lavoro che per la prima volta dopo anni non faceva parte di una cavolo di missione e la cosa gli riscaldò il cuore. Che non si fraintenda, Steve viveva per quello, ogni singolo secondo della sua vita, ma era bello riuscire a spogliarsi di quel costume e scrollarsi di dosso la nomea che portava sulle sue spalle, poter essere semplicemente Steve, quel ragazzo cresciuto a Brooklyn, piuttosto che “capitan America”. Il Phon che era stato acceso poco prima fu spento e Steve poté sentire la porta aprirsi. Si diresse verso di lui, osservandolo mentre sistemava la felpa grigia sul suo corpo «Scusa» gli disse nuovamente il castano, passandosi entrambe le mani nei capelli che ora risultavano essere lievemente arruffati. Steve scosse il capo, sorridendogli «Lascia che...» abbandonò la frase a mezz'aria, avvicinandosi al castano sotto il suo sguardo indagatore, ponendosi poi alle sue spalle. Insinuò le mani nei suoi capelli, districandoli lievemente, per poi raccoglie le ciocche frontali e più lunghe in una morbida coda, in modo da tenerli lontani dal suo viso grazie all’elastico che aveva rimediato da Nat «Ecco fatto» sentenziò «A quanto pare ci so ancora fare» disse, più a se stesso che al castano. Da ragazzo se la cavava con i capelli, sapeva come raccoglierli in delle semplici code ma anche in chignon, sapeva districarli senza arrecare troppo dolore, probabilmente per via della sua delicatezza, a detta di sua madre. Fu proprio lei ad insegnargli tutto e quest’ultimo insegnamento gli stava particolarmente a cuore, dato che negli ultimi mesi di vita, le uniche volte in cui riusciva a vederla sorridere era quando le acconciava i lunghi capelli, sistemandoli in una morbida treccia. Ritornò a fronteggiarlo, osservando finalmente il suo viso libero dalle ciocche che solitamente lo coprivano in parte «meglio?» gli chiese a quel punto e Buck si limitò ad annuire, distogliendo lo sguardo dalle sue iridi. Fecero colazione senza alcuna fretta, godendosi quella calma «Niente allenamento o missioni per oggi?» chiese il castano improvvisamente, incuriosito. Steve sospirò «Non mi farà male fermarmi per un po' e poi» prese un sorso del suo succo «gli altri sono in gamba, se la cavano perfettamente senza di me» fece spallucce, finendo la sua colazione. «Cosa hai intenzione di fare allora?» il castano sì versò un bicchiere di latte, sorseggiandolo nell’attesa di una risposta. «Io…beh» il biondo si alzò, poggiando tutto ciò che aveva usato nella lavastoviglie, dandogli le spalle «Volevo passare un po’ di tempo con te, Buck» disse ovvio, voltandosi a guardarlo e poggiandosi al ripiano della cucina «se per te va bene, naturalmente» aggiunse. Steve abbassò lo sguardo, piantandolo sui suoi piedi per qualche secondo, prima di ritornare sul volto del castano, incrociando le braccia, la paura di una risposta negativa gli fece fremere lo stomaco. Buck aveva a sua a volta finito la colazione, ci pensò su per un po’: era una buona occasione per allontanarsi quella, poteva usare qualche scusa e…e poi cosa? Si chiese amaramente, sarebbe finito annichilito dal silenzio di quella camera, esso non avrebbe fatto altro che amplificare ciò che risiedeva di già nella sua mente, rendendo più palesi che mai i suoi fantasmi, passando dall’essere una massa di ectoplasmi ad un essere senziente e spaventosamente tangibile, capace di infliggergli ferite. «Puoi restare, Steve» gli disse in fine, abbassando lo sguardo sul piatto ormai vuoto, convincendosi del fatto che avesse accettato solamente per non vedere quello sguardo triste, piuttosto che ammettere di aver fatto nuovamente l’esatto contrario di ciò che si era prefissato. Un sorriso illuminò il viso di Steve, che in pochi minuti, ripose tutto ciò che restava sul tavolo nella lavastoviglie, afferrando il cellulare ed inviando un messaggio a Sam, chiedendogli di avvisare gli altri del fatto che per quella giornata non avrebbe partecipato ad alcuna missione, in caso c’è ne fossero state ovviamente. Wilson rispose quasi immediatamente, non facendo alcuna domanda, probabilmente immaginava quale, o meglio chi fosse la ragione di quell’assenza improvvisa. «Allora?» sentì il castano parlare alle sue spalle, avvicinandosi a lui «insomma, cosa facciamo ora» a quel punto Bucky si lasciò cadere sul divano, sospirando. Steve gli sorrise, poggiando il cellulare sul tavolo e raggiungendolo, accomodandosi al suo fianco «Be’, questo dipende da te» gli disse, inclinandosi in avanti e poggiando i gomiti sulle proprie ginocchia. Bucky sembrò pensarci su per un po’, osservando la stanza in cui si trovava fin quando Steve lo vide inclinarsi verso di lui, poggiando il proprio corpo sul suo «Portami fuori di qui allora» disse solamente, senza guardarlo, lo sguardo fin troppo carico di emozioni così come la sua voce. Il biondo lo osservò attentamente, avvolto in quella felpa grigia un po’ grande per lui e sperò con tutto se stesso che una volta tornati, l’avrebbe indossata nuovamente. Per innumerevoli ragioni, lo rassicurava vederlo in quel modo, avvolto nei suoi confortevoli vestiti piuttosto che stretto in una divisa, pronto a combattere in caso di necessità. «Indossa qualcosa di caldo e aspettami» Buck si staccò da lui non appena iniziò a parlare, permettendogli così di alzarsi. Quest’ultimo lo guardò spaesato, confuso da quell’improvviso scatto e Steve gli sorrise per rassicurarlo «Prendiamo la mia Harley» detto questo, uscì da quella camera con un sorriso smagliante sul viso, correndo verso quella che era la sua di camera, fiondandosi al suo interno. Cambiò quei vestiti che aveva indossato poco prima in qualcosa di quanto meno decente, qualcosa di semplice tuttavia, in modo da passare inosservato, cercando poi nel suo armadio due giacche di pelle. Quando le trovò, né indossò una, ritornando poi dal suo amico «pronto?» chiese, entrando in camera per poi chiudere la porta alle sue spalle. Sentì un lieve mugugno in risposta, così si diresse lì dove sapeva fosse posto l’armadio di Buck, praticamente di fianco al suo letto. Lo trovò a petto nudo, mentre cercava di sfilare via la felpa oversize dalle sue braccia, i capelli liberi dall’elastico in cui erano stretti fino a poco prima, elastico che ora cingeva il suo polso. Steve lo osservò, cercando di essere indiscreto nonostante gli fosse praticamente salito il cuore in gola alla vista di quelle che gli sembrarono essere cicatrici: esse si diramavano dal punto in cui il vibranio incontrava la sua pelle espandendosi fino alla parte superiore del suo petto, creando una specie di ragnatela rosso carmineo. Si schiarì la gola, distogliendo lo sguardo dal suo corpo, le gambe fasciate da un jeans nero e stretto «Dove l’hai preso quello?» gli chiese, indicandolo. Buck indossò una felpa del medesimo colore «È una delle poche cose che posseggo realmente» fece spallucce «dovresti smetterla di darmi i tuoi vestiti» lo rimproverò, osservando con un sopracciglio alzato la giacca di pelle che ancora portava in mano. Steve gli sorrise, porgendogliela «ciò che è mio è anche tuo Buck, lo sai» a quel punto il castano la afferrò, indossandola subito dopo. Lo osservò poi girare per la stanza, aprendo vari cassetti fin quando non sembrò aver trovato ciò che cercava, mettendo fine a quella caccia al tesoro. Un paio di guanti in pelle, simili a quelli che aveva quando ancora era controllato dall'hydra, quelli che stava indossando però coprivano l'intera mano, nascondendo perfettamente quella in vibranio. Steve si chiese se davvero avesse paura di essere riconosciuto, additato come il fantasma che era stato fino a qualche tempo prima, e a giudicare da come continuasse a controllare il suo braccio, dedusse che quella fosse molto più che semplice paura: terrore. Gli andò incontro, abbracciandolo, cercando di farlo rilassare «Andrà tutto bene» sussurrò sentendo i muscoli tesi di Buck, preso alla sprovvista da quell’azione, rilassarsi contro il suo peso. «Non sei mai uscito da qui?» gli chiese a quel punto, incuriosito. Il castano scosse il capo in segno di diniego, circondando finalmente il suo corpo con le proprie braccia «Ho molti posti da mostrarti allora» e a quelle parole, James non poté fare a meno di sorridere contro la sua spalla, sentendo qualcosa dentro di lui battere un po’ più forte, qualcosa che non sentiva da tempo, o almeno così credeva. Gli era mancato Steve, averlo davanti a sé senza parlargli per sua unica scelta era stato doloroso, tanto che spesso gli era mancato il fiato in quelle ultime settimane. Eppure, nonostante quella che percepiva come felicità, Buck era arrabbiato. Arrabbiato con se stesso che, ancora una volta, non era riuscito a proteggere il suo amico, allontanandolo. Riflettendoci, probabilmente non solo Steve poteva definirsi egoista, anche James aveva le carte in regola per essere etichettato come tale, ma a conti fatti, in veste di esseri umani, ancor prima di essere dei soldati, come avrebbero mai potuto fare a meno del loro ossigeno?
«Pronto?» gli chiese nuovamente quando i loro corpi si allontanarono, per essere sicuro della sua decisione, il tono gentile. Non appena il castano annuì, raccattò il suo cellulare dal tavolo, facendo cenno di seguirlo. Attraversarono l'intera torre, fra corridoi ed ascensori attraverso i novantatré piani, ridendosela sotto ai baffi sentendo Buck spaventarsi quando Visione apparve praticamente dal nulla, augurando ai due una buona giornata. «Sbaglio o è quella che avevi nel 43?» chiese il castano quando finalmente la vide, carezzando con i polpastrelli fasciati dal guanto in pelle la carrozzeria di quella meravigliosa Harley. Steve gli sorrise, principalmente perché quella era un ulteriore prova che chi aveva davanti fosse davvero il suo vecchio amico, in tutto e per tutto, numerosi ricordi di quegli anni ritornati ormai al loro posto «È molto simile, si. Ovviamente la carrozzeria è un po’ differente» cominciò «L'Harley che avevo ai tempi era stata progettata unicamente per quello scopo lo sai, era diversa da qualsiasi altro modello e più veloce di una normale moto» aggiunse con un filo di nostalgia, osservandolo. Buck annui, trovandosi d'accordo con la sua ultima affermazione «Ma aspetta di salire su di lei» disse, fremendo dalla voglia di sfrecciare per la città insieme a lui. Raccattò due caschi, mostrando al castano come avrebbe dovuto indossarlo, dicendogli che sarebbe stato meglio farlo per proteggersi data l’elevata velocità, e poi non avrebbero corso il rischio di essere riconosciuti in sella a quella moto. «Reggiti forte» gli disse quando entrambi si furono finalmente sistemati in sella. Avviò il motore ed un forte rombo riecheggiò all'interno di quella specie di garage esageratamente grande. Finirono per sfrecciare fra le trafficate vie di Manhattan in pochi minuti e Buck dovette ammettere che quella moto fosse maledettamente veloce. Molto più della vecchia Harley a dire la verità, tanto che d'istinto, finì per stringere le braccia intorno alla vita di Steve, reggendosi a lui piuttosto che alla carrozzeria scura e lucida della moto stessa. Il biondo rimase piacevolmente sorpreso da quell’azione, sentire il corpo del suo amico premere contro il suo, per assurdo, lo rassicurava. Negli anni quaranta più volte l’aveva portato in moto con se, sapeva perfettamente come reggersi saldamente ad essa e Steve ne era conscio, eppure tirò un sospiro di sollievo, avendo modo di sentirlo chiaramente alle sue spalle. Lo portò al Central Park, nonostante il freddo, fortunatamente il vento quel giorno non incombeva su Manhattan, quindi potevano in ogni caso godersi un po' d'aria fresca. Quando Buck si rese conto che Steve stesse per fermare la sua Harley, lo lasciò finalmente andare, dandosi nuovamente dell'idiota per aver reagito d'istinto. «Finalmente» disse, quando poté togliere il casco, sospirando subito dopo, sollevato. Steve fece altrettanto, scendendo dalla sua moto, ridendo «Mi dispiace Buck, a meno che non si tratti di una missione, le regole vanno rispettate» gli disse e dio, si rese conto che nonostante tutto, non potesse aspettarsi altro da lui. «Mh hm» iniziò, passandosi una mano nei capelli, sorridendogli furbo «Questo dovresti dirlo a qualcuno che non sia al corrente di quante volte tu abbia falsificato i documenti per arruolarti, Steven» disse. Il tono era leggero, scherzoso, al biondo sembrò che uscire da quella stanza gli avesse fatto più che bene. «colpo basso, James» enfatizzò il suo nome, facendo il finto offeso da quell’affermazione, infilando le chiavi in tasca «E da quando in qua mi chiami “Steven”?» gli chiese, affiancandosi a lui e iniziando a camminare, guidandolo verso l’entrata del Central Park. «Da quando tu hai iniziato a chiamarmi “James”, idiota» lo incalzò Bucky, facendo scivolare le mani nelle tasche della giacca di pelle. Si incamminarono verso il centro del parco, quest’ultimo era praticamente quasi vuoto data l’ora e la cosa non dispiacque a nessuno dei due. A dirla tutta, il castano era terrorizzato dall’idea di fare del male a qualcuno, per sbaglio o di proposito. D'altronde, ciò che l’Hydra gli aveva piantato nel cervello era ancora lì, annidato in esso, da qualche parte fra la materia grigia e i suoi neuroni e Buck non avrebbe potuto farci nulla. Sarebbero bastate poche parole in russo per spazzare via le sue memorie, distruggendo quella sorta di equilibrio precario nel quale si trovava. L’aria intorno al castano si appesantì di botto e quando si fermò nel mezzo del parco, Steve lo imitò, fermandosi al suo fianco, osservandolo preoccupato. «Promettimi che sarai in grado di fermarmi se dovesse accadere qualcosa» Buck parlò improvvisamente, la voce cupa ridotta ad un sussurro, lo sguardo puntava verso il basso, concentrato sulla stretta strada in cemento che portava al centro del parco. Steve capì quasi immediatamente a cosa si stesse riferendo e dio se faceva male. Sapeva quali parole avrebbero innescato in lui quella sorta di maleficio, rendendolo nuovamente uno schiavo, un passeggero nel suo stesso corpo, nella sua mente. Avevano eliminato del tutto l'hydra, ne era sicuro, eppure la possibilità che qualche cellula dormiente fosse ancora presente era più che plausibile. E sarebbe bastato poco per risvegliarla, espandendosi come un cancro, veloce e subdolo, diventando in poco tempo una metastasi. Avrebbero cercato Buck, ne era convinto, per risvegliare in lui il soldato d'inverno, quella sorta di macchina da guerra apparentemente indistruttibile. L'aveva già fatto Zemo in passato, sottraendogli così la possibilità di ritrovare il suo vecchio amico. Strinse i pugni, tanto da farsi male «Steve?» la voce incerta di Buck lo risvegliò dai propri pensieri e si costrinse a mettere su un sorriso per rassicurarlo, nonostante quella stretta che nuovamente avvertiva intorno al suo cuore, i suoi polmoni, recludendogli la possibilità di respirare. «Va bene Buck, te lo prometto» detto questo, alzò la mano verso di lui e il castano credette erroneamente che l'amico volesse consolidare quella promessa con una stretta di mano. «Tu però promettimi che sarai forte, che non accadrà nulla» a quel punto, il biondo gli porse il mignolo, sorridendogli dolcemente. Lo sguardo del castano rimbalzò velocemente dal suo viso alla sua mano, alzando un sopracciglio come per chiedergli se fosse serio. E dallo sguardo, Bucky intuì che fosse dannatamente serio, nonostante il dolce sorriso che gli stava regalando. Incerto, forse un po' imbarazzato da quella cosa, strinse il dito del biondo con il suo, così come quando erano solo dei bambini al parco e si promettevano di rivedersi il giorno seguente, allo stesso posto, sotto lo stesso albero. Consolidarono così quella promessa, sotto il celo grigiastro di una Manhattan in pieno autunno, le foglie degli alberi ormai del tutto secche e sui toni dell'arancio. Buck gli sorrise a sua volta, o almeno tentò di farlo, ancora schiacciato da quegli orridi ed asfissianti pensieri. E Steve cercò di distrarlo, girando l'intero parco al suo fianco, indicandogli l'Empire State Building oltre gli alberi, affiancato da innumerevoli grattacieli. La torre degli Avengers svettava dalla parte opposta, con poco più di cinque piani in meno del grattacielo più alto della città. «Posso portarti a Brooklyn uno di questi giorni» gli disse improvvisamente, quando si sedettero su di una panchina in ghisa, un caldo caffè fra le mani, mentre il parco iniziava a popolarsi di bambini ed adolescenti. Bucky quasi si strozzò con la sua bevanda, tossendo lievemente «Cosa?» chiese, coprendosi la bocca con una mano fasciata dal guanto in pelle, mentre il biondo gli posava il palmo sulla schiena, preoccupato. «Posso portarti a Brooklyn» ripeté una volta che il castano sembrò riprendersi «se vuoi, ovviamente» aggiunse, guardandolo comprensivo. Dopo quello che era successo, non sapeva se il castano volesse veramente tornare nella loro città natale, lui stesso non ci aveva messo piede da quando si era risvegliato. Non avrebbe avuto senso tornarci da solo, lì dove ogni angolo avrebbe potuto raccontargli un aneddoto della sua vita assieme al suo migliore amico. Ma da quando l’aveva ritrovato, qualcosa si muoveva dentro di lui, un desiderio statico, persistente, anche se era consapevole che la piccola città fosse ormai totalmente diversa da come gli suggerivano i suoi ricordi. «Non…non ci sono mai ritornato» il castano parlò sovrappensiero «o forse l’ho fatto ma non riesco a ricordarlo» constatò, ritenendo la cosa piuttosto plausibile visto che di quegli anni di fuga, lontano dalle grinfie dell’hydra e le mani di Steve, non ricordava praticamente quasi nulla. Il biondo prese un sorso del suo caffè «Se non vuoi ritornarci, ti capisco. Io stesso non l'ho mai fatto» lo informò, osservando un ragazzo giocare sul prato col proprio cane, lanciandogli un bastone. «Perché?» chiese incuriosito il castano, stringendo fra le mani il bicchiere che conteneva il suo caffè. Steve si limitò ad osservare l'orizzonte, restando in silenzio per un minuto o più, decidendo se soppesare o meno le sue parole, e se si, quanto avrebbe dovuto farlo. Quando infine si voltò per osservarlo, decidendo finalmente come rispondergli, quei due occhi lo mandarono fuori uso per qualche secondo, prendendo poi l'improvvisa decisione di dirgli semplicemente la verità, deviando così i suoi stessi piani. Troppe cose erano dubbie nella sua vita, precarie, fra cui probabilmente anche la sua stabilità mentale, appesa ad un filo resistente quanto sottile. Aveva bisogno di certezze ed era deciso a donargliele «Non avrebbe avuto senso tornare senza di te» cominciò «Quando te ne sei andato, ecco...» la sua voce si bloccò per un secondo, mentre cercava le parole giuste da utilizzare per esprimere meglio quel concetto «Ho realizzato che per me Brooklyn non era casa senza te» gli confessò, una nota di tristezza nella sua voce solitamente ferma e a volte fin troppo autoritaria, esponendosi completamente all'altro. Ed era vero, insomma, Steve aveva sempre e solo avuto sua madre e Bucky, senza di loro Brooklyn era una città qualunque. Vide il castano separare le labbra, come se stesse per dire qualcosa da un momento all’altro, ma esse si richiusero quasi immediatamente, lasciando spazio ad una lieve tinta rossastra sui suoi zigomi. Bucky si voltò, guardando un punto indefinito davanti a sé, sperando con tutto se stesso che i capelli riuscissero a coprire il suo viso, cercando di nascondere l'imbarazzo. «Si, va bene» cominciò solamente dopo essersi ricomposto «Ci andremo insieme» come avrebbe mai potuto rifiutare quell'invito dopo le parole di Steve davvero non lo sapeva, sta di fatto che la cosa un po' lo spaventava, come un insolita e fastidiosa fobia, perché in fin dei conti nemmeno lo trovava un motivo per cui avere paura. Forse il rivedere le ombre di se stesso lo spaventava, rivedere ciò che era stato e ciò che non sarebbe mai più potuto essere, anche se ormai quest’ultima era diventata una triste e dolorosa consapevolezza. Quella mattina trascorse lenta, eppure non sentirono il peso del tempo in compagnia dell'altro, una compagnia che ad entrambi era mancata ma da cui ancora Bucky voleva scappare, per il bene del suo migliore amico. Risalirono sulla sua Harley solo nel tardo pomeriggio, dopo aver camminato lungo le strade di Manhattan che come sempre, brulicavano di persone. Il castano ebbe un po' di problemi ad infilare quel maledetto casco ma alla fine ci riuscì con successo, accompagnato dalle risate di Steve. Quest'ultimo, quando finalmente partirono in direzione della torre degli Avengers, afferrò una delle mani di Buck, poggiandola poi sul suo addome, tirandolo verso di sé. Una muta richiesta, ecco cos'era, richiesta che il castano colse quasi immediatamente e che, con non poco imbarazzo, accolse del tutto, aggrappandosi a lui come fosse la sua ancora, la luce solitaria di un faro che squarciava le profondità di una cupa notte. E lui, be, lui non era altro che un povero marinaio alla disperata ricerca della sua terra, come Ulisse con la sua Itaca.

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