Un lieve rumore risuonò nel lungo corridoio che divideva le due camere, i suoi nervi scattarono in allerta, i muscoli tesi al di sotto della trapunta, schiacciati fra di essa e il morbido materasso, gli occhi ben aperti. Si concentrò su quel silenzio assordante, stringendo fra le dita il cuscino soffice, il martire prescelto di quelle ultime nottatacce convincendosi, dopo forse un paio di minuti e quella che gli sembrò una lieve tachicardia, che quello strano suono fosse solo casuale, come quando spesso da piccolo gli capitava di udire lo scricchiolio del parquet o dei vecchi mobili costretti a portare notevoli pesi sulle altrettanto vecchie mensole, probabilmente marce per via dell'umidità. Si impose di chiudere gli occhi, se l'insonnia l'aveva fatto sua preda, almeno poteva riposare i suoi muscoli, distendendoli totalmente nel momento in cui l'adrenalina data dall'ansia e dalla paura scomparve totalmente dal suo sistema endocrino. Voleva dormire, dio solo sa quanto, eppure non riusciva, e questa volta la colpa non era del materasso fin troppo confortevole per i suoi gusti, qualcosa di ben più importante lo teneva sveglio fino a tarda notte, concedendogli pochi e brevi stralci di riposo effettivo. Sospirò pesantemente, tentando di scaricare del tutto la tensione, pentendosene subito dopo;
di fatti, un ennesimo suono arrivò fino alla sua camera, un suono chiaramente metallico questa volta, che gli fece rizzare i capelli biondi. Scattò sul letto, sedendosi sul materasso e fissando la porta, un altro suono simile a quello e si sarebbe precipitato fuori da quella capiente stanza. La osservò di sfuggita, analizzando angolo per angolo con la coda dell’occhio, come per assicurarsi che fosse solo, vecchia abitudine della quale non era ancora riuscito a liberarsi anche se, lì dove risiedevano gli Avengers, era stato messo tutto in sicurezza e se un solo pericolo si fosse presentato, uno degli strani allarmi di Tony li avrebbe avvertiti di esso. Aspettò in quella posizione per svariati secondi, ascoltando con attenzione il silenzio notturno che incombeva nella torre, attendendo un qualcosa che non voleva arrivasse realmente. Non voleva sembrare troppo impulsivo, troppo preoccupato, ma in fin dei conti, come poteva non esserlo: aveva da poco ritrovato il suo migliore amico, era rinsavito e finalmente ricordava tutto. Non poteva perderlo ora, non in quel momento, Buck ormai era l’unica persona, l’unico pensiero che lo teneva incollato a quella realtà, facendogli scordare totalmente la folle idea di voler ritornare indietro ai tempi della guerra. Scostò velocemente la coperta dalle sue gambe, alzandosi dal letto quando un altro strano suono fece capolino nei suoi timpani, un suono che, ancora una volta, gli sembrò provenire dalla camera del suo amico, anche perché in quel particolare piano erano le uniche due camere insieme a quella di Sam, che però risiedeva praticamente dalla parte opposta. Tony li aveva sistemati in quel modo “Steve sei stato tu ad insistere per salvarlo e tu Sam lo hai aiutato, problema vostro, ragazzi” gli aveva detto e il capitano ne fu felice, in quel modo poteva tenerlo più vicino e raggiungerlo più facilmente e velocemente. Anche se in cuor suo, sapeva che Tony non era ancora riuscito a superare il fatto che proprio James avesse assassinato i suoi genitori, ma lo accettava, la sua mente era stata controllata per più di 70 anni e Steve era certo che gli facesse ancora male guardare Bucky in viso, riconoscendo in esso il soldato d’inverno. Sam non ne era stato altrettanto entusiasta ma gli andava bene, aveva confessato a Steve una di quelle sere, era anche sua responsabilità e con un po’ d’impegno, era sicuro che sarebbe riuscito ad apprezzare il castano “se è tuo amico allora è anche mio amico, cap” lo aveva poi rassicurato un ennesima volta, lasciandogli una pacca sulla spalla prima di uscire per la sua solita corsa mattutina. Uscì velocemente dalla sua camera, chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle, cercando di non provocare alcun suono molesto, non voleva svegliare Sam tantomeno uno degli altri compagni li nella torre. Scalzo, si avviò a passo svelto verso la camera di Bucky, iniziando quasi una piccola ma veloce corsa verso di essa nel momento in cui un pesante tonfo scosse i suoi timpani. Il pavimento gelato della torre faceva contrasto con l'alta temperatura del suo corpo, forse per i vestiti che indossava, forse per l'adrenalina che, nuovamente, si era riversata nel suo corpo da soldato. Arrivò alla porta, fermandosi dinanzi ad essa per una manciata di secondi, prima di aprirla lentamente, con cautela, evitando di bussare in modo da non provocare alcun suono. «Bucky» sussurrò il nome del suo amico, sbirciando oltre la porta in chissà quale materiale o lega di ferro, senza però entrare nella spaziosa camera. Quest'ultima era scura, così come il corridoio che aveva appena attraversato a luci spente conscio del fatto che, nel bel mezzo di esso, non ci fossero ostacoli. Non riuscì a vedere poi molto, ma quando chiamò di nuovo il suo nome, questa volta alzando lievemente il tono di voce ed aprendo maggiormente quella porta, lo senti inalare velocemente una minima quantità d'aria, sussultando alla pronuncia del suo stesso nome. «Sono Steve, buck» sussurrò questa volta, il tono calmo, nel tentativo di infondere sicurezza in quello che tutt'ora considerava il suo migliore amico, nonostante lo strano comportamento che aveva assunto fin da quando era ritornato in se. Troppo tempo aveva vissuto con qualcosa che riusciva a corrompere la sua mente, infondendo nelle sue membra, volontariamente, una sottospecie di freddezza, diffidenza quasi, qualità che non avevano mai fatto parte del ragazzino che conosceva. Bucky gli aveva permesso di stargli vicino durante la battaglia, proteggendolo con dei semplici gesti, lasciando che lo proteggesse a sua volta col suo scudo in caso di estremo pericolo, rannicchiandosi dietro di esso con naturalezza, memoria muscolare probabilmente. Eppure, al di fuori di quell'assurda battaglia nata solo per degli stupidi patti e lo stesso Steve che andava contro 117 nazioni per proteggere il suo ritrovato amico, quest'ultimo non era molto propenso al contatto fisico. Non lasciava che nessuno lo toccasse, tantomeno Steve. I capelli lunghi ricadevano davanti al suo viso, nascondendo, per la maggior parte delle volte, le occhiaie scure che circondavano i suoi spenti occhi, gli stessi che anni addietro, aveva visto brillare sotto la luce del sole a Brooklyn. Non sapeva se sarebbe mai riuscito a fare tornare quel Bucky, lo stesso che lo attirava a se per un abbraccio senza alcun problema, che dormiva con la testa poggiata sulla sua spalla, lo stesso che spesso e volentieri, preferiva camminare con il braccio a cingergli le spalle esili, tenendolo vicino al suo corpo. «Posso entrare?» chiese cautamente il capitano, aprendo la porta della camera quanto bastasse per lasciarlo entrare, scorgendo con fatica, metri più avanti, un corpo rannicchiato di fianco al letto che le quattro mura ospitavano, illuminato di sbieco dalla leggera luce lunare che filtrava attraverso i vetri spessi della finestra. Non sapeva se il suo amico stesse tremando, ma quella posizione lo insospettiva: le ginocchia strette al petto, le braccia a circondare le proprie gambe in una specie di moto protettivo, confortevole per certi versi. E in quell'istante capì il perché di quei tonfi, il letto disfatto, un quaderno, o meglio diario, lasciato sul pavimento limpido. Inclinò il viso, aspettando una risposta che sembrò non arrivare mai. Si fece coraggio, decidendo in ogni caso di invadere il suo spazio vitale, andando nuovamente contro tutto ciò che si era ripromesso in quegli ultimi giorni. Chiuse la porta alle sue spalle, notando quelle del suo amico sobbalzare lievemente al suono metallico della serratura, osservandolo alzare il viso dalle proprie ginocchia, tenendolo comunque basso, non permettendo al capitano di poter scorgere le sue iridi fra i capelli scuri. «Sto bene, Steve» lo sentì sussurrare, come se solo in quell’istante si fosse reso conto della sua presenza «torna pure a dormire» inalò silenziosamente, anche se il biondo non si fece sfuggire il lieve tremolio che colpì il suo respiro, alimentando la sua preoccupazione. Steve sospirò a sua volta, arrendendosi al fatto che il suo amico non avrebbe mai ammesso di star male, non essendo abituato a cercare aiuto. Neanche da ragazzo lo faceva e ricordava quanto fosse difficile farlo parlare quando qualcosa non andava. Prese ad attraversare il salotto spazioso di cui ogni stanza era munita, chinandosi a raccogliere il piccolo diario che giaceva sul pavimento, a qualche metro da Bucky. Lo rigirò fra le dita, rendendosi conto che fosse lo stesso che aveva trovato e sfogliato nell'angusto appartamento in cui tempo prima si era rifugiato il castano. Con un groppo in gola, lo poggiò sulla scrivania poco lontana, avvicinandosi poi al suo amico a passo lento. L’essere cauto non era un atteggiamento assunto per evitare una possibile reazione ostile da parte dell’altro, lo conosceva, sapeva che non gli avrebbe mai fatto del male e lo stesso Bucky sapeva che Steve volesse solo aiutare, come sempre d’altronde, più che altro serviva a se stesso: aveva una mezza idea di cosa lo aspettasse al di sotto di quei capelli lunghi e sottili come la seta e voleva ritardare il più possibile quel momento, conscio del fatto che gli avrebbe fatto un male cane. Si sedette sul pavimento, di fronte a lui, osservandolo per un po’, mentre tutto il suo corpo fremeva per un minimo contatto, anche solo una carezza. La sua vicinanza gli era mancata fin troppo, anche subito dopo la sua presunta morte non riusciva a pensare ad altro che alle sue mani, le stesse che non era riuscito ad afferrare per evitare quella caduta apparentemente fatale, tentando di ubriacarsi anche se le cellule del suo corpo non gli permettevano di assaporare quell’ebrezza provata una sola volta nella sua vita. Si rese conto che indossasse una delle sue grandi felpe che gli aveva dato pochi giorni prima in assenza di altri indumenti da indossare, era quella grigia notò, la sua preferita, abbastanza spessa da allontanare quel leggero freddo secco che c’era in quel periodo, abbastanza spessa da tenere caldo il suo amico il quale, se la sua mente non lo ingannava, non amasse molto la sensazione di avere le estremità del suo corpo gelate. Il pantalone, poté notare, era forse un po' lungo per lui, i piedi circondati dal tessuto di quest'ultimo per evitare di poggiare la pelle nuda sul pavimento freddo. «Bucky» quasi sussurrò, sporgendosi verso di lui, cercando di attirare la sua attenzione. Percepì il moro tirarsi un po' indietro, cercando di appiattirsi contro la parete, nel tentativo di sfuggire a quella situazione. «Hey, coraggio guardami» aggiunse con dolcezza, cercando di calmarlo col tono della sua voce. La luce lattea della luna ora li illuminava entrambi e Steve poté vederla riflettersi sulle dita in vibranio dell'amico che ora stringevano lievemente il tessuto del pantalone. Il moro scosse impercettibilmente il capo in segno di diniego, i capelli ondeggiarono sinuosamente, carezzando parte del suo viso, le tempie, poi gli zigomi sporgenti. E in quel momento Steve lo trovò quasi dolce, irresistibile, convincendosi che quelle sensazioni appartenessero meramente alla sfera amichevole del loro rapporto. Inclinò di poco il capo, osservandolo «Buck, per favore» lo pregò, avvicinando una mano al suo corpo, poggiandola sul braccio in vibranio protetto dalla sua felpa. Lo osservò per una manciata di secondi, fin quando, riluttante, non lo vide alzare il volto dalle proprie gambe, con lentezza quasi maniacale. Steve seguì quel movimento con il proprio capo, fronteggiando finalmente il suo viso, le iridi tuttavia ancora basse, osservando la mano che il biondo stringeva cautamente intorno al suo braccio. Il più alto si inclinò in avanti, sistemando il proprio viso nella traiettoria che le iridi del suo amico avevano assunto, legando le proprie ad esse, costringendolo, per certi versi, a guardarlo. Era uno spettacolo, pensò il capitano, triste, ma pur sempre uno spettacolo. Le iridi grigiastre illuminate dalla luna, tanto chiare da confondersi con la luce biancastra, le ciglia folte sfioravano vagamente i suoi zigomi quando le palpebre si incontravano, i capelli ricadevano morbidi sul suo viso, coprendo in parte le sopracciglia folte e del medesimo colore. Le labbra quasi violacee, la barba lievemente lunga, quel tanto che bastasse per pungergli il palmo se solo avesse allungato la mano per carezzagli il viso. La pelle pallida, più di quanto già non lo fosse in passato, le occhiaie accompagnavano i suoi occhi traumatizzati ed impauriti in quell'istante, e sul ponte nasale, poté notare, l'ombra di un ematoma persisteva sulla sua pelle, segno della maschera che per troppo tempo lo avevano costretto ad indossare, in segno di obbedienza e sottomissione. I suoi occhi erano rossicci, gonfi, come se li avesse strofinati ripetutamente, forse nel tentativo di fermare delle lacrime. Una piccola e sottile scia lucida che terminava sul suo labbro, gli suggerì che fosse nel giusto, spezzandogli il cuore più di quanto già non lo fosse nel vederlo in quel modo ogni singolo giorno, gli occhi persi nel nulla, i suoi pensieri rivolti probabilmente agli anni che aveva passato sotto il controllo dell’Hydra. Steve lo osservò per bene, memorizzando ogni aspetto del suo volto, ritrovando in esso il ragazzo che conosceva, divenuto ormai uomo, un uomo che in fin dei conti conosceva come le sue tasche, la promessa di non vincere la guerra senza di lui ancora scritta nei suoi occhi. E la cosa gli faceva male, perché per alcuni versi, era stato proprio Steve, alla fine, a vincere la guerra in assenza di Bucky, ed il solo pensiero gli creò un groppo in gola, un bruciore che mai aveva sentito prima. Deglutì rumorosamente, contraendo la mascella, cercando di andare oltre almeno per il momento: con Bucky in quelle condizioni, non poteva certo permettersi di mostrarsi debole. Era sempre stato il castano la colonna portante di quell’amicizia, quello che consolava l’altro per la maggior parte delle volte, ed ora era arrivato il momento di ricambiare, glielo doveva, poteva farlo, e soprattutto voleva. Perché Buck era una parte di se, forse la sua parte migliore, una squadra dal legame indissolubile, un legame che andava ben oltre gli anni passati in assenza dell’altro, le situazioni scomode, azioni giuste o sbagliate che fossero…perché a quanto pareva, se si trattava del suo amico, al capitano non importava veramente se qualcosa fosse giusto o sbagliato, l'unico oggetto di suo interesse era il bene di bucky e non poteva, anzi non voleva vederlo in quelle condizioni. «Oh, Bucky…» sussurrò, la voce spezzata, rotta dal dolore che provava nel vederlo in quello stato. La sua mano risalì fino alla sua spalla, sorprendendosi del fatto che il castano si stesse lasciando toccare senza problemi. Le labbra violacee di quest’ultimo, le stesse che ricordava perennemente piegate in un morbido sorriso naturale, si separarono lievemente, incontrandosi nuovamente l’un l’altra solo quando Steve infilò dolcemente quella mano nei suoi capelli, spostandoli cautamente dal suo viso. Le iridi del castano si spostarono rapidamente verso il basso, come in imbarazzo, cercando di non incontrare quelle azzurre e in parte verdognole del suo amico, scappando da esse un ennesima volta. Steve si avvicinò inevitabilmente, le sue gambe incrociate per poco non sfiorarono quelle del castano e si meravigliò di quanto effettivamente quei capelli risultassero morbidi al tatto, strofinando lievemente i polpastrelli sulla nuca del suo amico, per poi ritirare la mano da quella massa folta e scura. Passò quindi al suo viso caldo, probabilmente per via delle lacrime, lasciando che quella lieve barba gli pizzicasse il palmo, solleticandolo. Carezzò la sua pelle con i polpastrelli, asciugando poi quella traccia umida al di sopra del suo labbro con la propria pelle, il tutto sotto lo sguardo attonito del castano che ancora, si ostinava a mantenere le iridi basse. «Cos'è successo» chiese a bassa voce ma il suo amico sembrò non averlo sentito realmente. Di fatti, prima che potesse ritirarre la propria mano da suo viso, vide Bucky rilassarsi visibilmente, allentando la presa sulle proprie gambe, lasciandole andare del tutto. Le mani poggiarono sul pavimento freddo, coperte ancora una volta, dal tessuto dell'indumento che indossava. Steve lo osservò abbassare le palpebre, come se avesse finalmente trovato pace, andando in contro al leggero tocco della sua mano, beandosi del calore della sua epidermide, aggrottando lievemente le sopracciglia, creando delle piccole rughe d'espressione al centro di esse. Distese le gambe, divaricandole quel tanto che bastasse da permettergli di avvicinarsi al suo corpo, circondandolo con esse, per poi fare scivolare quella mano nuovamente dietro la sua nuca. L'altra si infilò fra la sua schiena e la parete fredda della camera, trascinando il castano a sé. Lo abbracciò con calma, permettendogli di liberarsi da quella stretta nel caso non si fosse sentito a sua agio, le palpebre lievemente sbarrate per la sorpresa di quel gesto. Le loro spalle cozzarono dolcemente, ritrovando così un armonia che Steve aveva creduto di aver perso ormai da tempo. I muscoli del castano si tesero dapprima, ma quando il biondo iniziò a carezzargli la nuca, riuscì a rilassarsi, cedendo a quell'abbraccio che entrambi non si erano resi conto di desiderare, abbandonandosi al calore dei propri corpi. E bucky lo lasciò fare, senza respingerlo, perché in fin dei conti era Stevie, il ragazzo magrolino e cagionevole di salute che aveva conosciuto nel cortile di una scuola, una di quelle posizionata nelle strette vie secondarie di Brooklyn, e mai si sarebbe sognato di respingere il suo migliore amico, l'unico ricordo che era riuscito a farlo finalmente rinsavire dopo anni di schiavitù. Chiuse gli occhi, affondando il proprio viso nella spalla del suo amico, cingendogli il corpo con le proprie braccia, tenendosi a lui arricciando le falangi in vibranio e pelle nella sua maglia. «Li ricordo tutti, Steve» lo sentì sussurrare il biondo «Li ricordo tutti...» ripeté, questa volta più a se stesso che al suo amico, cercando di assimilare la cosa, anche se gli risultava impossibile. «Ogni nome, ogni luogo, indirizzo, il colore dei loro occhi…» mentre ascoltava quelle parole, qualcosa si insinuò nel corpo di Steve, una massa nera che scivolò nelle sue ossa, il corpo appesantito da quel dubbio che era ormai divenuto certezza. La voce di Bucky a quelle ultime parole fu rotta da un lieve singhiozzo, pochi secondi passarono, prima che il capitano potesse sentire il viso del castano premere disperato sulla sua pelle, quasi come volesse scivolare al di sotto della sua epidermide, nel disperato tentativo di mettere fine a quelle emozioni tanto forti da annichilirlo secondo dopo secondo, rendendolo nient’altro che un cumulo di ossa e muscoli tremolanti. E Steve lo avrebbe fatto se solo avesse potuto, avrebbe caricato sulle proprie spalle il peso che il suo migliore amico portava, liberandolo, solamente per vederlo sorridere come i vecchi tempi. Sapeva che quest'ultimo fosse il mero ricordo di un paradiso ormai perduto, ma forse poteva aiutarlo, quantomeno in situazioni del genere. Godendosi per un po’ l’inaspettata morbidezza dei capelli dell’altro mentre essi gli solleticavano parte del viso, lo strinse maggiormente a se, facendo collidere i propri corpi il più possibile quando, forse data la scomoda posizione, Buck finalmente posizionò le gambe fra la vita e le cosce di Steve, cingendogli debolmente i fianchi. Sentì delle lacrime bagnare la sua pelle, asciugandosi su di essa nel momento esatto in cui quelle piccole gocce d'acqua salata abbandonarono gli occhi grigiastri dell'uomo che stringeva a sé, lasciandogli le ciglia umide. Carezzò la sua nuca tentando di confortarlo, lasciando che i capelli di Buck scivolassero fra le sue dita, prima che un lieve tremolio iniziasse a percuotere le sue membra, portando inevitabilmente quei muscoli a tendersi, esausti, l'uno in prossimità dell'altro. Cominciò a carezzargli la schiena con dei piccoli movimenti circolari, ritmici e lenti, cercando di calmare in qualche modo il suo respiro «lo so Buck» non trovò altre parole, o forse gli morirono in gola, impaurito e frenato dal fatto che se avesse cercato di parlare nuovamente, non sarebbe riuscito a controllare le lacrime di dispiacere che minacciavano di sgorgare dalle sue palpebre. Non avrebbe dovuto arrendersi così presto, Bucky era sempre stato un osso duro, avrebbe dovuto cercarlo quella stessa notte, con o senza l’aiuto di Stark, a costo della sua stessa vita, non ascoltando chi gli aveva detto che nessun uomo sarebbe riuscito a sopravvivere ad una caduta simile. E quella consapevolezza lo torturava ogni notte, era sempre lì in agguato, da qualche parte, fra un pensiero e l’altro. Lo lasciò piangere sulla propria spalla, aggrappato al suo corpo come fosse l’unico appiglio in un mare inconsistente di dolori, le sue mani stringevano con forza la maglia che quella notte indossava, non badando al fatto che il castano stesse inumidendo anche la pelle del suo collo. Lo strinse a se come fosse la cosa più naturale del mondo, ringraziando dio per avergli permesso di averlo di nuovo al suo fianco, beandosi della sua presenza fra le braccia. Affondò lievemente il viso nel suo collo, facendo combaciare perfettamente i loro corpi come pezzi di un puzzle dispersi e poi ritrovati dopo tanto, forse troppo tempo, ma rimasti quasi immutati nonostante tutto. La lieve barba del castano pizzicava il suo collo, ma non così tanto da arrecargli fastidio, e in fin dei conti non poteva importargli di meno, non voleva separarsi da quel corpo per nessun motivo al mondo, sarebbe rimasto in quella posizione fino al mattino seguente se Bucky avesse voluto. Il respiro di quest'ultimo era veloce e sconnesso, esso si infrangeva sulla pelle del biondo, insieme alle lacrime che, implacate, lasciavano velocemente i suoi occhi. I minuti passarono inesorabili anche se lenti e Steve si chiese inconsciamente da quanto il castano stesse piangendo «Diamine Buck» riuscì finalmente a parlare, allontanando per poco i capelli dell'amico dalle proprie labbra «domattina quei begli occhi che ti ritrovi saranno rovinati» sussurrò dolcemente, premuroso come lo era sempre stato, continuò a carezzare la sua nuca con i polpastrelli, solleticandolo affettuosamente, nella sua voce un pizzico di tristezza. I muscoli del castano continuavano a tremare, contratti, tesi, e Steve lo avvicinò di più al suo corpo, avvolgendolo, chiudendo lievemente le gambe intorno a lui e facendo sfiorare i loro busti, come per sopprimere quell'azione involontaria che era sicuro gli stesse solo impedendo di respirare decentemente. Poté sentire i muscoli del basso ventre di Bucky contrarsi contro i suoi nonostante la felpa spessa e morbida che indossava. Le dita del castano si arricciarono nella sua maglia, stringendolo a sua volta e seppellendo, se possibile, il viso nella sua pelle chiara, mentre una lacrima solitaria scivolava velocemente sulla sua clavicola, bagnandogli poi il colletto della maglia. Steve rabbrividì lievemente a quella sensazione e quasi sobbalzò quando udì un suono metallico alle proprie spalle, continuando a stringere il suo amico fra le braccia, non badando a chi effettivamente avesse aperto la porta di quella camera. Bucky, al contrario, sembrò paralizzarsi sul posto: i singhiozzi continuarono e le lacrime cadevano copiose, poteva sentirle, eppure il suo corpo era diventato letteralmente come ghiaccio fra le sue braccia, immobile, forse per memoria muscolare, forse semplicemente perché non voleva farsi vedere in quello stato, controllando meglio che poteva il suo respiro. «Scusa se irrompo in camera tua in questo modo, braccio di ferro» la voce assonnata ed impastata dal sonno di Sam arrivò alle orecchie di Steve quasi per miracolo per quanto il suo tono fosse basso e non poté fare a meno di sorridere sul collo di Buck quando lo sentì stringere lievemente le gambe intorno alla sua vita, il respiro improvvisamente bloccato. Sapeva che non andassero molto d'accordo, che Sam fosse troppo provocatorio per Buck, troppo estroverso per uno come lui, che preferiva mantenere una certa immagine di sé stesso. In poche parole, aveva paura che andasse a sventolarlo ai quattro venti, anche solo per sdrammatizzare la situazione, eppure non tentò in alcun modo di staccarsi da lui per darsi una sistemata. «Giuro di aver bussato» prevenì il suo amico, anche se era certo di non aver sentito alcun suono, forse era troppo concentrato sul castano o forse Sam stava solo usando una piccola ed innocente bugia. «Ho sentito dei rumori strani, Steve non c’era in camera sua così ho pensato che tu» le luci fredde della stanza si accesero velocemente, gli occhi scuri ed assonati di Sam viaggiarono per la camera, trovando quasi subito i due corpi avvinghiati l’uno all’altro. L’ex soldato si bloccò all’istante, la mano ancora poggiata sull’interruttore mentre osservava con attenzione e preoccupazione, lo ammetteva a se stesso, i capelli castani di Bucky ricadere disordinati sulla spalla del capitano. Non sapeva cosa fare, assonnato com’era, una parte di lui stava cercando di fargli credere che non si fosse mai alzato dal suo letto. E Buck si sentì terribilmente esposto, alla mercé dello sguardo di una persona con la quale aveva combattuto fianco a fianco una singola volta, un collega quindi, forse un buon amico in futuro, ma non in quel preciso istante. Le dita dei piedi si arricciarono nell’aria, nervose, coperte dal pantalone grigio che indossava, sperando con tutto se stesso che i capelli scuri riuscissero a coprire il suo viso, così come le orecchie bollenti e probabilmente rosse, l’orribile sensazione di essere osservato si dimenava nel suo petto. Nessuno dei due si mosse per un breve lasso di tempo e Steve sapeva che toccasse a lui dover risolvere anche quella situazione. Il suo viso si staccò dalla pelle di Bucky, allontanandosi dai suoi capelli, voltandosi lievemente verso il suo amico, quel tanto che bastasse per osservarlo con la coda dell’occhio. La mano che poggiava sulla schiena di Bucky si allontanò da essa e a quell’azione poté sentire le braccia dell’amico stringerlo, come a chiedergli di non andare da nessuna parte, di non lasciarlo solo, di non esporlo all’altro uomo, stringendosi nelle spalle più che potè, nascondendosi dietro al suo corpo com’era solito fare con il suo scudo. Il braccio in vibranio lo stava letteralmente stritolando, lasciandogli poca libertà di movimento e un lieve sorriso nacque sulle sue labbra alla consapevolezza che lo volesse lì con lui. Alzò la mano come per tranquillizzare Sam «Va tutto bene» sussurrò inconsciamente, quasi mimando quelle parole, mantenendo la calma che aleggiava fra loro due, in quella camera «Torna pure a dormire, ci penso io» aggiunse e la mano ritornò finalmente sulla schiena del suo migliore amico. Ci vollero pochi secondi perché Sam capisse, sbattendo le palpebre tre o quattro volte, annuendo poi lentamente, lo sguardo ammorbidito, capendo, almeno in parte, cosa fosse successo e che il Capitano potesse gestire la situazione nel migliore dei modi. Il viso di Steve ritornò sul collo di Bucky e quasi immediatamente, le luci si spensero, lasciando nuovamente spazio al buio notturno e quando sentirono la serratura scattare, seppero che fossero di nuovo soli in camera. Bucky ritornò finalmente a respirare, dei piccoli e veloci singhiozzi scuotevano il suo respiro e gli sembrò quasi che le sue ossa stessero tremando per quanto stesse piangendo, per la forza con cui lo stava facendo, espellendo ogni singola goccia che stava cercando di trattenere prima dell'arrivo di Steve. «Dio, così rischi di rompermi le costole» soffiò una lieve risata sul suo collo «Non vado da nessuna parte, non preoccuparti» aggiunse poi, sussurrandogli quelle parole poco sotto l'orecchio, scandendole per bene, come a volerle imprimere in ogni angolo della sua mente. Stava quasi per lasciargli un bacio sul collo, ma si trattenne, sorprendendo se stesso a formurale quei pensieri, dando corda a quelle voglie improvvise, sfregando poi le labbra sulla sua pelle, soddisfacendole almeno in parte. I minuti passaro e le lacrime che fluivano dalle sue palpebre erano notevolmente diminuite, non era più un pianto isterico quindi e questo bastò a Steve per sentirsi meglio, per estinguere, anche se in parte, quel malessere che con una morsa d’acciaio gli stritolava il cuore. «Così...» sussurrò sulla sua pelle, chiudendo lievemente gli occhi, godendosi il respiro decisamente più calmo di Buck sulla sua epidermide, rabbrividendo al calore di esso. La mano che aveva fra i suoi capelli carezzò nuovamente la sua nuca, finendo poi sulla piccola porzione di collo non coperto dalla felpa che indossava «Segui me, segui il mio respiro» aggiunse poi, cercando di calmarlo del tutto. E Bucky ci provò, perché in quel momento Steve glielo aveva chiesto o forse perché non sapeva veramente come rinsavire del tutto da quell'incontrollabile ed isterico pianto, quel fluire di emozioni fin troppo violento da lasciare la pelle del biondo, così come la sua leggera felpa e ormai il suo stesso viso, vittima di un nubifragio. Cercò di accordare il suo respiro con quello profondo e calmo di Steve per un paio di minuti, fallendo miseramente dapprima, stringendo i denti, ma riuscendoci poco dopo, armonizzando il tutto, così come il battito del suo cuore. «Esatto, così» ripeté e Bucky poté sentire le labbra di Steve incresparsi sulla sua pelle in un sorriso che gli era mancato per troppo tempo, un sorriso che, incredibilmente, aveva conservato da qualche parte nella sua mente per tutti quegli anni, riportandolo a galla nei rari e brevi momenti in cui l'hydra non aveva il controllo totale sulla sua mente. Una volta che il respiro del castano ebbe ripreso un ritmo decente, calmo e profondo contro il suo, il capitano sentì finalmente il corpo fra le sue braccia rilassarsi. La stretta intorno al suo busto si allentò notevolmente, i muscoli tesi delle spalle si sciolsero per primi, seguiti poi dall’addome, diventando velocemente una massa calda e morbida a contatto con il suo corpo, scossa da dei lievi tremolii dovuti dal precedente sforzo fisico e mentale. Le gambe del castano tremavano ininterrottamente a contatto con i suoi fianchi, ma nonostante tutto Buck si ostinava a tenerle in quella posizione, non lasciando che esse crollassero, sfinite, sulle sue cosce toniche. Poggiò il proprio mento sulla spalla del castano, portando gli occhi al celo e schioccando la lingua sotto al palato, assolutamente non stupito da quell’ultima scintilla d’orgoglio che, stupidamente, persisteva nell’animo del suo amico. E ci pensò lui ad estinguerla del tutto, lasciando per una manciata di secondi il suo corpo, districando le sue dita longilinee da quei capelli scuri, portandole al di sotto delle sue ginocchia. Alzò lievemente le gambe di Buck per poi distenderle sulle sue cosce, a contatto con i suoi fianchi, dando finalmente pace ai suoi quadricipiti. Lo sentì sbuffare fra i loro corpi, irritato, eppure Steve si lasciò sfuggire una lieve risata sotto voce, conscio del fatto che fosse più per l’imbarazzo che per altro. Le sue mani ritornarono al loro posto ma questa volta non lo strinse a se, non c’era alcun bisogno dato che lo stesso Buck teneva pressato il proprio corpo sul suo, tenendoli a contatto il più possibile. «Allora?» sussurrò «come ti senti» gli chiese sotto voce, anche se la risposta risultava essere più che ovvia. Come avrebbe mai dovuto sentirsi dopo aver pianto in quel modo? Le lacrime si erano ormai bloccate, constatò, avvertendo la sua pelle asciugarsi lentamente a causa del freddo e la cosa gli sollevò ulteriormente il morale. Pochi secondi passarono prima che il castano si decidesse a dargli una risposta ma quando schiuse le sue labbra, cercando di parlare, boccheggiò, quasi come se il suo organismo richiedesse una maggiore quantità d'ossigeno per ritornare ad usufruire della parola. E Steve attese, perché per quanto volesse udire la sua voce, voleva lasciargli i suoi tempi, carezzandogli affettuosamente la schiena in segno di conforto quando le sue labbra si chiusero nuovamente, immettendo più aria possibile nei suoi polmoni, sospirando pesantemente subito dopo, sentendo Il suo addome tremare lievemente a contatto col suo. «Uno schifo» rispose in fine, quasi un sussurro trafilato fra i denti e le labbra, come se le avesse aperte appena e almeno in quel momento fu sincero, ormai era crollato e non avrebbe avuto senso mentire nuovamente. Steve gli lasciò una leggera pacca sulla schiena quando lo percepì allentare del tutto la presa sul suo addome, separandosi lentamente dal suo corpo. E bucky non lo guardò, forse non ne aveva il coraggio in quel momento, lasciando andare i suoi fianchi con riluttanza, quasi come se le sue mani non avessero altro posto su cui riposare, cadendo poi sulle sue stesse gambe nel momento in cui le scapole cozzarono piano contro la parete fredda alle sue spalle. Non erano lontani in quell'istante, anzi, pochi centimetri li separavano, forse una spanna o due, eppure Steve sentiva la necessità di avvicinarsi a lui, di sfiorarlo, di trovare un ulteriore punto di contatto mentre osservava il suo viso arrossato dal pianto. Strinse le sue gambe intorno al suo corpo, avvolgendolo letteralmente con esse, i suoi polpacci, oltre la felpa spessa che il castano indossava, erano l'unica cosa che separavano la parte bassa della schiena di quest'ultimo dalla parete. Scivolò un po' più avanti, agevolando il veloce movimento con le proprie mani, poggiandole per una manciata di secondi sul pavimento a dir poco gelato. Le gambe di Buck si divaricarono lievemente a quel movimento, assecondandolo, anche perché sembrò non averci fatto caso, troppo impegnato a cercare di evitare il suo sguardo, mantenendo le proprie iridi sulle sue dita in vibranio. Steve si concesse un po' di tempo per osservarlo, ancora una volta, gli zigomi arrossati così come la punta del naso, gli occhi lievemente gonfi e sapeva che il mattino seguente sarebbero stati molto peggio, le ciglia ancora bagnate ed unite l'un l'altra dalle lacrime che persistevano su di esse. Percorse con le proprie iridi i suoi lineamenti, molto più affilati e decisi di com'erano anni prima, eppure rassicuranti allo stesso modo per lui. Le guance lievemente infossate, le labbra lucide pressate, i capelli indubbiamente più disordinati del solito ricadevano sul suo viso, coprendolo in parte. Nonostante tutto, un calore si espanse nel suo petto, qualcosa di familiare, che aveva percepito qualche anno prima quando, per sbaglio, la maschera del castano era volata via dal suo volto, dandogli la possibilità di riconoscerlo. Le mani raggiunsero le sue guance, circondandogli il viso, e ancora una volta bucky lo lasciò fare, abbassando le palpebre quando i polpastrelli di Steve asciugarono parte del suo viso bollente, in particolare la zona al di sotto dei suoi occhi, lì dove il risultato di insonnia e probabilmente incubi persistevano più del solito. “Casa" pensò il biondo, un angolo delle sue labbra si arricciò lievemente nel momento in cui Buck riaprì gli occhi, guardandolo finalmente, permettendogli di osservare le sue umide iridi grigiastre. Ci rifletté per qualche secondo e finalmente poté darsi una risposta: non voleva che vedesse, per questo cercava di evitarlo. Sapeva che Steve potesse legge gli altri come un libro aperto, era bravo in quello e Buck ne era conscio ma con lui...bhe con lui era una maledetta forza della natura, non gli sfuggiva mai nulla per quanto spesso provasse a domare i suoi stati d'animo, punzecchiandolo qui e lì per riuscire a farlo spogliare dalle sue troppe protezioni e quello lo ricordavano benissimo entrambi. Non voleva che vedesse quel dolore, non voleva condividerlo, annegando in esso e nelle sue conseguenze e in quel momento Bucky si diede dell'idiota, chiedendosi come avesse creduto di poter nascondergli tutto. Quell'unica parola si insinuò nella mente di Steve subdolamente e sperò che in qualche modo fosse la stessa cosa anche per il castano, perché era l'unico rimastogli di quell'epoca ormai passata, l'unica persona che in un modo o nell'altro era rimasta dopo la morte di sua madre, il suo unico vero amico e punto di riferimento. Quanto fortunato poteva considerarsi, almeno in un certo senso, Steve davvero non riusciva a capacitarsene, una fortuna dal retrogusto amaro in ogni caso, ma non poté fare a meno di addolcire il suo sorriso quando il castano tirò su col naso, testimone e vittima del precedente pianto. «Lo immaginavo» sussurrò comprensivo «non vuoi parlarne, vero?» aggiunse, inclinando lievemente il viso come per enfatizzare quella domanda, conscio del fatto che la risposta sarebbe stata negativa. Sentì la mascella di Buck serrarsi al di sotto dei suoi palmi, corrugò la fronte e delle leggere rughe d’espressione apparirono fra le sue sopracciglia, dando vita ad un espressione amara, angosciata, nelle sue iridi poté scorgere una punta d’ansia mentre le sue labbra si aprirono lievemente in un gesto prevenuto, disperato quasi, ma da esse non uscì alcun suono. Il petto di Steve si strinse a quell’infausta visione e per un momento gli mancò il respiro, schiacciato da essa che, per quanto bella, rischiava di spaccargli le ossa in mille pezzi. Non privò le sue iridi di quella labile fuga della quale avevano necessariamente bisogno, preso dal terrore di dover rivivere ancora una volta quegli avvenimenti, gli stessi dai quali stava cercando di scappare inutilmente, legati a lui, immagazzinati e catalogati in uno degli emisferi del suo cervello. Le mani di Buck strinsero le sue cosce, tanto forte che probabilmente le dita in vibranio avrebbero lasciato dei lievi ematomi sulla sua pelle chiara. Steve poté vedere quel gesto, allontanando una mano dal viso del castano per andare a stringere proprio quella in vibranio «Va bene se non vuoi parlarne Buck» lo rassicurò e le labbra dell'altro si chiusero, le iridi tornarono timidamente sul suo viso, riluttanti. Percepì la mano fredda di Buck rilassarsi al di sotto della sua, dando finalmente pace alla sua pelle coperta dal pantalone. La mano che riposava ancora sul viso del castano scivolò nuovamente fra i suoi capelli, scostandoli dalla sua pelle e in quel momento si promise di procurarsi un elastico la mattina seguente, in modo da tenere a bada la sua chioma. I suoi occhi gli stavano chiedendo scusa, ancora e ancora, poteva vederlo, come se avesse fatto qualcosa di sbagliato e quello sguardo gli rivoltò le viscere, perché in fin dei conti l'unico a dover chiedere scusa era proprio lui. Per tutto, per averlo abbandonato, per non averlo cercato quella notte, per non averlo scovato prima, per essere stato così tanto egoista per certi versi, da essersi ritrovato praticamente a dare il via ad una caccia all'uomo. Egoista...nessuno avrebbe mai pensato di etichettare il capitano come tale, colui che aveva rischiato più volte la vita per il suo paese, eppure quando si trattava di Bucky sembrava essere un altra persona. Voleva averlo al suo fianco, voleva sentirlo e avrebbe sopraffatto chiunque si fosse messo fra loro due. Perfino in quel momento, che sembrava essere così intimo e carezzevole, Steve riuscì a definirsi molto più che un semplice egoista; prepotente, incurante per alcuni aspetti, eppure non gli dispiaceva affatto, naufragando nella familiare immagine di quel viso tanto vicino e desiderato. Bucky era sempre rimasto al suo fianco, questo prima che il secondo grande conflitto prendesse vita, da quel momento in poi, erano stati lontani, almeno fisicamente, costretti a non vedersi per mesi. Steve ricordava bene l'inadeguatezza che lo divorava, trascinandolo in un abisso di odio e rabbia, non tanto per la sua piccola e fragile stazza, quanto per l'impossibilità di poter fare ciò che tutti si aspettavano da un ragazzo in quegli anni, proteggere la propria patria e combattere per essa. Aveva impresso nella mente quel senso di impotenza che lo coglieva quando Buck gli mostrava l'ennesima lettera, comunicandogli il giorno della sua partenza. Di come le sue mani tremavano per la rabbia al solo pensiero di non poterlo seguire, non facendo nulla per nascondere quella reazione, attribuendola al freddo. E allora Buck gli avrebbe ceduto un altra delle sue pesanti trapunte, aggiungendola alla pila già formata sul suo letto in quel lungo periodo nel quale condivisero un piccolo appartamento a Brooklyn, dopo la morte di sua madre. La stessa trapunta che poi, durante la notte, avrebbe sistemato nuovamente sul letto del castano non appena avrebbe avvertito il suo respiro farsi lento e pesante, restituendogli così un po' di calore. Forse era per quel motivo che lo aveva seguito dopo averlo visto sul ponte, non badando al volere dell'altro che con così tanta scaltrezza ed insistenza, si nascondeva da lui praticamente sotto la luce del sole. Per questo lo aveva stretto anche se gli aveva detto di stare bene e di andar via, ignorando quella distanza che, di proposito o meno, stava ponendo fra di loro, separando le loro anime: ne aveva la forza ora, e soprattutto poteva farlo, semplicemente. «Magari domattina, mh?» lo incoraggiò quando il palmo della sua mano gli carezzò velocemente il collo, finendo poi sulla spalla, stringendola lievemente e sorridendogli comprensivo. Il castano annuì riluttante, gli occhi ancora lucidi, vitrei quasi, arricciando la punta del naso forse per estinguere un leggero prurito mentre le sue gambe si strinsero lievemente intorno alla vita asciutta del biondo. Quest’ultimo, avvertendo quella stretta, si chiese se fosse possibile morire per una embolia polmonare in pochi attimi, ma fortunatamente riuscì a riprendersi subito, ignorando quella strana sensazione allo stomaco che per un attimo pervase ogni angolo del suo corpo, provocandogli un veloce brivido lungo la spina dorsale. «Direi che hai bisogno di riposo, amico. E sinceramente anch’io, lo ammetto» sentenziò, portando entrambe le mani sulle cosce di Buck e lasciando un paio di pacche su una di esse, come per comunicargli di lasciare il suo corpo. Il castano colse il messaggio, allentando del tutto la presa e Steve fece la medesima cosa, allontanandosi a malincuore da lui, districando con facilità il groviglio di gambe che si era venuto a creare per poi alzarsi dal pavimento. Allungò una mano verso Buck che ancora se ne stava seduto sulle fredde piastrelle, aspettando che la afferrasse. Gli ci vollero una decina di secondi prima di farlo, osservando le dita longilinee del biondo e quando quest’ultimo lo tirò piano a se, dandogli una mano a mettersi in piedi, le sue gambe erano intorpidite, tanto da essere costretto a poggiare l'altra mano sulla spalla di Steve, barcollando. «Attento» sussurrò allora, afferrandogli d'istinto il fianco per sorreggerlo, lasciandolo andare non appena gli sembrò stabile sulle proprie gambe. Non seppe dire se fosse solamente stata una sua impressione, ma gli era sembrato, da quel veloce tocco soprattutto, che il suo amico fosse dimagrito. Non in maniera drastica chiaramente, eppure lo aveva percepito più esile contro il suo corpo, contro la sua mano che era praticamente riuscita a stringe per intero il suo fianco. La cosa avrebbe avuto senso, erano settimane che il castano si era isolato per così dire e poche volte gli era capitato di vederlo mangiare. Ma forse, si ripeté, era stata solo una mera sensazione, data probabilmente dalla sua felpa che indossava quella notte e quel pizzico di preoccupazione che al momento, gli stava lentamente rosicchiando le vertebre con avidità. Si voltò per dirigersi verso il comodo divano del quale ogni stanza era munito «Resto qui stanotte, va bene?» guardò Bucky con la coda dell'occhio, osservandolo di sbieco mentre tornava a sedersi sul suo letto disfatto, un groviglio bianco e grigio al di sopra del comodo materasso. Il castano ricambiò lo sguardo «Sto bene Steve» quasi un sussurro face capolino dalle sue labbra che fortunatamente, gli pareva avessero acquisito un colorito più roseo «Torna pure in camera tua se vuoi, non sei costretto a restare» aggiunse. A quel punto il biondo alzò gli occhi al celo, chiedendo a chissà quale Dio la forza di non tirargli uno dei cuscini del divano dritto in faccia. Con la braccia conserte, si girò verso di lui, dandogli la più totale attenzione «Non sono costretto a restare Buck, ma voglio farlo» sentenziò. Il castano abbassò lo sguardo, stringendo fra le mani i vari strati di tessuto presenti sul letto, i capelli ricaddero nuovamente davanti al suo viso e non gli sembrò molto convinto di ciò che aveva detto. In poche falcate, azzerò quella distanza che li divideva, sedendosi di fianco al castano, sprofondando nel morbido materasso tanto che il corpo dell'altro si inclinò lievemente verso di lui. «Anche tu non eri costretto a restare, sai?» gli chiese allora, ricevendo dall'amico uno sguardo interrogativo, la fronte lievemente corrugata, un muto quesito che pendeva dalle sue labbra. Steve sorrise impercettibilmente «Quando ero così malato da restare incosciente per ore. Quando non riuscivo ad aprire bocca nemmeno per chiedere un bicchier d'acqua a causa della stanchezza» si fermò per un attimo, come per raccimolare i ricordi che ancora risiedevano, intatti, nella sua mente «Quando l'asma mi impediva di correre come un normale ragazzino, oppure quando la febbre era così alta che i medici mi davano per spacciato». A volte era ancora doloroso ricordare le sue condizioni fisiche, non tanto per esse, quanto per la preoccupazione, il dolore che riusciva a vedere negli occhi di chi gli stava vicino, che riusciva a percepire nelle loro voci, nei loro comprensivi e flebili tocchi. «Non eri costretto a restare, Buck, eppure lo hai fatto, sempre. Ora capisci cosa intendo?» gli chiese in un sussurro, osservando il suo viso mentre l'improvvisa voglia di ritrarlo prendeva posto nel suo petto e la cosa lo colpì non poco, visto che da quando si era risvegliato, poche volte era riuscito a prendere nuovamente una matita fra le dita e a trovare l'ispirazione. Eppure gli sembrò giusto che gli facesse quell'effetto, come ai vecchi tempi, quando il castano si appisolava sul suo letto e così ne approfittava per esercitarsi, facendo di lui il suo archetipo, un punto di partenza e d'arrivo. E forse ci avrebbe provato a ritrarre il suo viso nei giorni a seguire, chissà, forse avrebbe risvegliato in lui quella passione ormai sopita da tempo. Al solo ricordo di quelle sensazioni, il petto di Bucky si strinse: rimembrava bene la preoccupazione, tanto grande da rivoltare le sue budella, le mani serrate in dei pugni quando esse non potevano stringere quella del suo amico, le unghie conficcate nei palmi. Lo capiva, dio se lo capiva, ma per quanto potesse farlo, gli era sempre risultato difficile accettare di essere aiutato, soprattutto in quel periodo. In fin dei conti, aveva già confessato al biondo che pensava di non meritare nulla e quella convinzione ancora lo tormentava. Eppure si limitò ad annuire, sorridendo flebilmente alla consapevolezza della testardaggine che aveva sempre caratterizzato il biondo, anche quando era solo un ragazzino. Quest'ultimo si sorprese nel vederlo annuire, era convinto di dover spingere ancora un po' per poterlo convincere, ma fortunatamente era bastato quello. Gli poggiò una mano sulla spalla, risalendo velocemente alla sua testa, arruffandogli i capelli affettuosamente «Va bene allora, prenderò il divano» il castano lo guardò con la coda dell'occhio, senza ritrarsi da quel tocco «Svegliami se qualcosa non va» così si alzò, dirigendosi verso il comodo divano, sentendo dopo pochi secondi qualcosa di morbido colpirlo alla testa. «Almeno prendi questo» la voce di Buck lo raggiunse e gli sembrò quasi frettolosa, imbarazzata per qualche motivo, ma sorrise quando, voltandosi, lo vide sistemarsi sul letto, aggrovigliandosi fra le lenzuola. Raccolse il cuscino dal pavimento, soffiando una lieve risata fra le labbra «Buonanotte Buck» aggiunse, distendendosi finalmente su quel divano. Poté udire un semplice “buonanotte” in risposta, mentre sistemava il cuscino meglio che poteva, concentrandosi sul respiro del suo amico che, per via del silenzio, riusciva a sentire quasi perfettamente. Guardò fuori dalla finestra, la luna alta nel celo, probabilmente erano le due, forse le tre del mattino quindi potevano ancora concedersi del meritato riposo. Un odore piuttosto forte invase le sue narici, un odore che sapeva di casa, più precisamente di quel piccolo appartamento di Brooklyn. Sapeva di strada, di pioggia appena caduta sul freddo asfalto, rinfrescante come la rugiada di prima mattina e dio se era confortante per lui, tanto che si crogiolò in esso per minuti interi, aspettando che il respiro del castano si facesse pesante e ritmico, dato che non aveva nessuna intenzione di addormentarsi prima di lui. Il tempo passò inesorabile e quando fù sicuro che il suo amico stesse dormendo, si alzò dal divano, dirigendosi silenziosamente verso di lui. Voleva solamente assicurarsi che andasse tutto bene e quando gli arrivò di fronte non poté fare a meno di sorridere, scorgendo le sue gambe aggrovigliate nella pesante trapunta grigia, i capelli sparpagliati sul cuscino bianco, il braccio in vibranio al di sotto di quest'ultimo, la stessa posizione in cui spesso lo trovava anni prima, quando condividevano la camera. Si piegò sulle ginocchia, raggiungendo l'altezza del suo viso, le sopracciglia lievemente corrugate, la mascella serrata. Steve alzò un sopracciglio «Nessuno dei due ha sonni tranquilli a quanto pare» sussurrò flebilmente, poggiando un dito fra di esse, passando poi la mano sul suo zigomo, arrivando velocemente alla guancia macchiata dall'impercettibile barba. A quella carezza, il volto di Buck si distese totalmente, le labbra finalmente si separarono, lasciando andare un sospiro. Sarebbe rimasto per ore li ad osservarlo, illuminato di sbieco dalla luce della luna, ma si costrinse a ritornare su quel divano, augurandosi di avere una notte priva di incubi.
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Tempus Omnia Medetur
Fiksi PenggemarQuando due anime si sfiorano di nuovo, non possono fare a meno di volerne ancora, soprattutto se in passatto sono già state unite, costrette poi a separarsi da quella che pensavano fosse la mano fredda della morte. Stiamo parlando di due ragazzi qua...