Girasoli

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Il sole batteva forte sul campo, come sempre.

E come ogni mattina, al sorgere dell'alba, il prato, disseminato con centinaia di meravigliosi girasoli, si voltava ad ammirare sua maestà Il Sole. Nessuno era immune al suo fascino, d'altronde, era Lui a dare la vita, e solo a Lui bisognava dedicare la propria, con tutta la lealtà e la gratitudine che meritava. E così era per tutti in quel campo. Per tutti meno che per uno.

A uno di quei girasoli, di guardare Il Sole, non fregava proprio nulla, attirando su di sé la collera e l'indignazione del suo stesso branco: "che ingrato!" gridava uno, "ragazzi, per l'amor del Sole state lontani da quel tizio," suggeriva una madre ai più piccoli, "che sua altezza possa perdonarlo," pregava un vecchio. Si chiamava Gab, e nonostante  Gab si fosse accorto da tempo di essersi guadagnato il disprezzo della sua stessa famiglia, non smise per un solo giorno di voltarsi altrove.

Così passarono le settimane, i mesi, un anno.

Ormai il branco non prestava più attenzione al comportamento di quel eretico: non arrivavano più giudizi taglienti come vetro, niente raccomandazioni ai più piccoli, niente preghiere. Nulla. Ormai Gab era considerato al pari delle erbacce che infestavano il prato, niente più che un fastidioso parassita con cui toccava condividere il prezioso nutrimento che, il Dio sole, continuava a regalar loro ogni giorno. E così era per tutti in quel campo. Per tutti meno che uno.

Ray, il più piccolo tra i girasoli, era sempre stato affascinato da Gab. Non provava disprezzo, né paura, e se non fosse stato per il padre che gli aveva categoricamente vietato di parlare a quel tipo, lo avrebbe già avvicinato molto tempo addietro. Il padre di Ray, però, non c'era più: spazzato via da una tromba d'aria che aveva portato con se i più anziani del campo; e poi Ray era un adulto ormai, avrebbe deciso lui a chi poteva o a chi non poteva rivolgere la parola. Aspettò la notte, il momento in cui gli altri girasoli tornavano nelle loro case, sperando che quello strano individuo, fra tutte le sue bizzarie, avesse pure quella di non  dormire. Si mosse lentamente, facendo attenzione a non svegliare i suoi fratelli e, senza sorprendersene troppo, vide Gab: era sveglio, intento a fissare lo stesso punto in cui poche ore prima, in tutta la sua vanità, il Dio Sole aveva concesso loro il suo spettacolo quotidiano.

"Mio padre diceva di starti alla larga," esordì.

"E poi, cos'è successo?" Rispose Gab.

"Lui non c'è più, e sinceramente, alla prossima raffica di vento, non so se io sarò ancora qui... se tu sarai ancora qui."

"Mi dispiace, scommetto che tu e tutti gli altri avreste preferito vedere me spazzato via al posto suo."

"Avrei preferito che non avesse preso nessuno," lo corresse Ray "per quanto riguarda gli altri, invece, ciò che pensano non mi importa."

"Certo, non ti importa. E' per questo che sei venuto da me, di notte, mentre nessuno può vederci. Perché quello che dicono gli altri a te non interessa," ironizzò Gab.

"Sta a sentire, ho dei fratelli qui, degli amici, quello che pensano gli altri a me non interessa, ma se loro..."

"Se loro ti vedessero a chiacchierare con il vecchio pazzo potrebbero decidere di escludere anche te," completò Gab. "Non preoccuparti, non me la prendo ."

"Papà aveva ragione, avrei dovuto starti alla larga. Chissà cosa mi aspettavo di cavar fuori da un ingrato che si ostina a ignorare chi, ogni giorno, si fa carico della sua vita senza chiedere nulla in cambio," fece Ray, iniziando a chiudersi in se stesso.

"Ti sbagli ragazzo," riprese Gab, interrompendo la rincasata dell'altro. "Io non ignoro Il Sole, e non nego la sua maestosità. L'ho guardato come voi tutti per parecchi anni, trovandolo meraviglioso."

"E allora perché non fai altro che dargli le spalle! E' così che mostri la tua gratitudine?" tuono Ray, cercando di contenere la rabbia per non svegliare gli altri.

Scese il silenzio, quel tipo di silenzio in cui tutto fa rumore, persino il nulla. Cinque secondi, dieci secondi, poi venti. Infine Gab si decise, come se in quel terzo di un minuto avesse cercato il coraggio di tutta una vita. Puntò la corolla verso l'alto, invitando Ray a fare lo stesso.

"Apri bene gli occhi ragazzo, e guarda sopra di noi."

Ray alzò lo sguardo, e non appena i suoi occhi raggiunsero il punto più alto che il suo gambo gli permettesse di raggiungere, una distesa di piccoli soli bianchi, luccicanti come zaffiri, gli inondò le pupille. Sapeva contare, aveva imparato dopo l'ultima tromba d'aria, durante la conta dei dispersi, ma quei meravigliosi punti di luce bianca non sarebbe riusciti a contarli neanche se avesse vissuto un secolo. Anche Il Sole era lì, in mezzo a quelle cose: era più piccolo, era meno luminoso, era più bello. Non appena lo vide, tutte le certezze che lo avevano accompagnato nel corso della sua breve e monotona esistenza, svanirono: la luce conviveva col buio, il buio accarezzava la luce, il tutto sullo sfondo di mille diamanti che illuminavano un cielo blu mezzanotte. Non aveva senso. Nulla di tutto ciò aveva senso. Abbassò lo sguardo.

"Ma che diamine!" urlò, senza preoccuparsi minimamente di svegliare gli altri.

"Prima che tu lo dica," intervenne Gab, "quelle non sono pietre preziose: sono stelle; e quello non è Il Sole: si chiama Luna. Quando avrai finito di ammirarli dai un'occhiata all'oceano, si trova proprio in basso alla tua sinis..."

Ma Ray, l'oceano, lo stava già fissando da un pezzo: gli occhi iniettati di una bellezza che fino a quel momento non credeva neanche potesse esistere. Provò a dire qualcosa.

"M-ma da d-d-dove sono sa-saltati fuori: le st-stelle, l'oceano, l-la Luna," balbettò a fatica.

Gab scoppiò in una risata sonora, intrisa di gioia, che svegliò tutti i girasoli del campo. Quando smise di ridere sorrise, guardò Ray dritto negli occhi, e con la voce più calma del mondo disse: "Sono sempre stati lì, ma voi eravate troppo impegnati a guardare Il Sole"



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