A Francesco Leone (1)

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 "Ho sedici anni, una sigaretta attorcigliata con del tabacco economico in una mano e il peggior vodka lemon nella storia dei vodka lemon fatti male nell'altra, scroccato con una certa nonchalance dal camioncino di Massimo il paninaro. I miei amici saranno a cento metri da me, non li vedo, ma ad intervalli irregolari il vento mi porta la risata ubriaca di Monica fin qui . Abusiamo di tutto ciò che ci è stato vietato da bambini, rispondiamo male agli adulti ed ogni volta che si presenta l'occasione di fare baccano, facciamo baccano. Siamo i padroni del mondo.

Fingo una chiamata e dico agli altri che devo allontanarmi un attimo: "mi sta chiamando mamma e se sente questo casino domattina mi tartassa di domande", Alex mi chiede di riferirle che ha dimenticato il reggiseno in camera sua, sorrido allontanandomi col dito medio ben in mostra tra le risate goliardiche del gruppo . Cammino un po', arrivato al monumento dedicato ai morti in guerra prendo posto su uno dei quattro scalini in pietra bianca, scelto con cura in modo da rimanere nascosto agli occhi di tutti. La targhetta del mio scalino recita: "A Franc sco Leo e, orto in gue ra per rida e futuro ai no tri figli". Mi vien da ridere. Penso all'espressione che farebbe il signor Leone se vedesse per chi ha dato la vita, "spero tu non avessi moglie e figli, o perlomeno, se li avevi spero che li odiassi con tutto te stesso," penso fra me e me. "Perché se li hai abbandonati per un branco d'idioti come noi, lasciatelo dire amico mio, sei proprio un imbecille."

Nel momento in cui mi siedo mi rendo conto di aver finto una chiamata col cellulare in tasca, ma evidentemente erano tutti troppo sbronzi , me compreso, per accorgersene. E poi mia madre non chiama mai dopo le ventitré, salvo emergenze; tipo il gatto che ha pisciato sulla poltrona o la nonna che non riesce a connettere il tablet al wi-fi.

Il mare è meraviglioso nelle notti di luglio, sembra una coperta messa lì da qualcuno per nascondere un tesoro di inestimabile valore. Servirebbero mille uomini per sollevarla, ma molti di essi avrebbero i loro piedi sopra e tirarla su sarebbe impossibile. Avessi qualcosa da nascondere la nasconderei lì, nel mare di luglio. C'è una luna gigantesca sopra la mia testa e pare che nessuno se ne renda conto. Riesco a scorgerne ogni dettaglio se la fisso con cura e il solo pensiero che io riesca a scorgerne così tante sfaccettature mi mette i brividi. Non sono riuscito a vedere che Laura mi amasse follemente a venti centimetri dalle sua labbra, mentre riesco a vedere esattamente quante imperfezioni vuole mostrarmi una sfera che fluttua nel nulla a trecentomila chilometri di distanza dai miei occhi. E' triste.

I miei soliloqui purtroppo, o per fortuna, non durano mai abbastanza. Se mi perdessi nel mare di luglio non avrei molta paura.

Erika ha un radar, sono certo che riuscirebbe a trovarmi in mezz'ora o poco più, segnalerebbe a tutti la mia posizione, con un margine di errore di mezzo metro, e con un coltello da caccia farebbe un buco nella coperta, grande abbastanza per tirarmi fuori. Prese posto alla mia sinistra.

- Quando la smetterai di scappare?- esordisce, dando un sorso al suo margarita.

- Forse quando non verrai più a cercarmi, - rispondo, sorridendole con affetto.

In realtà non scappo per farmi cercare, ma ormai sono rassegnato all'idea che se Erika sta nei paraggi io non potrò mai star solo per più di dieci minuti. Non glielo dirò mai, ma le sono infinitamente grato per questo. Quindi, ormai che è qui, la rendo partecipe.

- Ma tu ti rendi conto che abbiamo una luna, sopra la nostra testa, ogni, fottutissima, notte?

- Emh, si... non mi dire che te ne stai accorgendo solo ora? Ok che sei daltonico però...

- No forse non hai capito la domanda, - la interrompo – dico: tu, ti rendi conto, che abbiamo una luna, sopra la nostra testa, ogni, fottutissima, notte?

- Si, - mi da corda, consapevole che uno dei miei soliti deliri sta entrando in scena.

- No, secondo me non te ne rendi conto.

- Non iniziare, - interviene furiosa, - ogni volta parti con questa storia che nessuno possa capire ciò che ti passa per la testa, perché tu sei tipo un non so quale essere speciale venuto da non so dove per salvare noi piccoli e innocui esseri umani. Non trattarmi come se fossi stupida, lo fai con tutti, sempre, e finisci per allontanare chi ti vuole bene. Piuttosto, spiegami perché non me ne rendo conto a detta tua, io ti ascolto.

E' vero, lei mi ascolta. Non ne capirò mai il motivo, ma lei mi ascolta.

- Va bene va bene, calmati però, - così inizio a buttare tutto fuori, - tu mi stai dicendo, che la vita di ognuno di noi è fatta per seguire un determinato percorso, giusto?

- Che tipo di percorso intendi scusa?

- Voglio dire, noi nasciamo per essere buttati dentro delle scuole e imparare un sacco di cose. Tipo leggere, contare, scrivere, oppure per venire a conoscenza che un tipo vissuto più di trecento anni fa è morto esiliato su un'isola deserta dopo aver tentato di conquistare il mondo, no?

- Pare che Napoleone sia morto così, sì, e quindi? - mi chiede, aggrappandosi al suo margarita, come se lasciarlo andare significasse sprofondare nel Pacifico.

- Impariamo com'è morto Napoleone, impariamo com'è morto Giulio Cesare, impariamo com'è morto Adolf Hitler. Tutte persone che hanno seminato morte nel tentativo di conquistare il pianeta. E sai perché lo facciamo? Per essere pronti.

- Essere pronti, per cosa, esattamente?- domanda, col sopracciglio sinistro all'insù.

- Essere pronti per diventare dei fottutissimi camerieri, cassieri, nella migliore delle ipotesi dipendenti pubblici o operai per una grande azienda di provincia!

- Ossignore, sono sicura me ne serviranno altri due per sopportare ciò che mi stai per dire, - e solleva il bicchiere come a brindare con le stelle.

- Macchè altri due Eri, te ne servono altri dieci! - rispondo ridendo."

Memorie Di Uno SconfittoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora