Lenti colorate

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Simone era veramente incazzato.

In realtà era semplicemente deluso ma non voleva darlo a vedere.

Manuel non si era degnato di inviargli un messaggio.

Conosceva bene il carattere dell'amico: la sua testardaggine, il suo orgoglio ma aveva sperato che si sarebbe reso conto di quanto lo avesse ferito e che sarebbe andato oltre la sua stupida presa di posizione.

Simone non credeva veramente che Manuel fosse un omofobo ma sapeva anche che non capiva del tutto ciò che era, che non riusciva ad andare oltre il pregiudizio: sussurrava la parola gay nei corridoi come un bisbiglio ma poi gli urlava in faccia quell'altra parola davanti a tutti.

La sua sessualità era un qualcosa che lui stesso stava ancora elaborando e che non aveva completamente metabolizzato ma sapeva che non voleva vergognarsene e non capiva come Manuel, che si professava il suo migliore amico, non riuscisse ad andare oltre.

Prima di quella sera, prima di quelle parole, Simone aveva sempre creduto ciecamente che lui e Manuel fossero dalla stessa parte: anche se guardavano in diverse direzioni, osservavano entrambi il mondo con le stesse lenti colorate. *1

Sapeva che aveva sbagliato a raccontare tutto a Chicca e che l'aveva ferito ma le sue parole avevano superato il limite, avevano cambiato il colore delle sue lenti colorate, creando un voragine emotiva incolmabile fra i due.

Simone non si era mai sentito così distante da quella che credeva fosse la sua persona in ogni sfumatura (socio, amico, fratello, amore, semplicemente Manuel ).

La delusione lo aveva spinto a trasformare la distanza emotiva in fisica, a mettere 2568km e qualche ora di aereo fra sé e il riccio.

La cosa più terribile era che i primi giorni a Glasgow si era sentito in colpa (era stato lui a sfasciare la macchina a Manuel, a cercare disperatamente la sua amicizia, a tentare di baciarlo fra un mucchio di animali impagliati in un museo che sapeva di stantio) e si era vergognato di essere scappato, di aver mostrato quanto quella parola potesse ferirlo, di aver messo tutta quella distanza fra di loro.

Avrebbe voluto chiamarlo ma si sentiva troppo stupido e indifeso: avrebbe voluto rassicurare l'amico, spiegargli che non voleva cambiasse nulla fra di loro. Sarebbero rimasti sempre la Manuel e Simone associati, ciò che provava era solo un problema suo ed era pronto ad accettare qualsiasi cosa Manuel fosse disposto a concedergli: se ciò che poteva avere era solo un' amicizia, l'avrebbe custodita come un tesoro.

Avrebbe tanto voluto farlo ma si sentiva paralizzato; non era ancora pronto ad affrontare l'ennesimo rifiuto, l'ennesima delusione, a vedere per la milionesima volta il suo cuore di carta pesta sbriciolarsi nell'indifferenza dell'altro.

Così aveva semplicemente aspetto qualcosa, qualsiasi cosa: che Manuel per una volta facesse il primo passo, che gli dimostrasse che, anche se non nel modo in cui voleva Simone, per il più grande anche lui era importante.

Gli sarebbe bastata anche una semplice chiamata per tornare a casa: Manuel con la sua faccia da schiaffi che gli chiedeva se Glasgow gli facesse schifo, se gli mancasse Roma, se gli mancasse lui.

Ma non era successo niente e Simone era andato in paranoia.

L'unico contatto che gli era rimasto con Roma, con Manuel o quasi, gli era dato dalla telefonata di circa mezz'ora che aveva ogni giorno da quando era partito con Laura.

Di solito la chiamata iniziava con le solite notizie di circostanza ( i posti che Simone aveva visitato quel giorno a Glasgow, i compiti, qualche piccolo gossip, che cosa aveva spiegato Lombardi) poi a un certo punto ogni maledetta volta Simone era sul punto di chiederle -come sta? mangia? dorme abbastanza? hai visto se per caso uno stronzo pelato è passato a prenderlo da scuola in sti giorni?- poi ci ripensava e si rendeva conto di quanto tutta quelle domande potessero apparire patetiche alla ragazza e si mordeva la lingua prima di poter emettere anche solo un suono.

You are still far from homeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora