Era il 14 settembre 2009, quel giorno iniziavo la quinta elementare.
Per l'occasione avevo indossato il mio fedelissimo grembiule bianco con la farfalla rosa ricamata sul lato del cuore, mentre ai piedi calzavo le mie ballerine preferite, quelle gialle con le palline di gelato color pastello.
Ero invisibile come il resto dei giorni, ma quell'anno mi sentivo ancora di più tale, forse perché ne erano successe di tutti i colori e in mezzo a quell'accozzaglia indefinita la gente bianca come me ci sparisce dentro: L'Aquila ad aprile era stata devastata da quel terribile terremoto in Abruzzo; Michael Jackson ci aveva lasciati a giugno e mamma aveva pianto tutte le sue lacrime, perché Thriller era la canzone su cui aveva ballato con il nonno nel giorno del suo matrimonio; Mike Bongiorno se ne era andato da pochi giorni e io giuro di non aver mai visto mio padre così imbronciato per la morte di un personaggio televisivo.
La farfalla rosa sul mio grembiule serviva a quello, a darmi l'illusione di poter volare via dal casino della giungla, lontano, dove anche le persone come me potevano riflettere la propria luce e non solo subire il riflesso di quella degli altri.
Il bianco funziona così, assorbe i colori di tutti e non ne sprigiona nessuno, per questo si dice acromatico.
Acromatico, come me, Gaia Pieri della quinta B.
Salgo le scale fino al secondo piano, ma neppure le ballerine gialle con le palline di gelato riescono a farmi sentire leggera. Mi siedo allo stesso banco, quello in prima fila, proprio di fronte alla cattedra, perché è lì che le maestre mi hanno emarginata, lontano dalla giungla, alla piena luce del sole. Mi chiedo se non lo sappiano, che alla luce del sole il bianco riflette di più, e più rifletti, meglio riescono a vederti e se ti vedono significa che ti hanno trovato, e di lì a poco puoi star certo che ti prenderanno.
Dico, mi pare ovvio, il bianco si deve nascondere in mezzo agli altri colori.
Ricevo un colpetto alla nuca, colpa di un foglio di quaderno accartocciato che mirava dritto alla mia testa per indispettirmi. Le risate si propagano come il boato di una mandria di gnu che corre giù per la gola, in stile Il Re Leone. Mamma dice di non farci caso, che se li ignoro, smetteranno. Penso solo che la lezione non è neanche cominciata e io sono già stufa di questo posto. Chiudo gli occhi e per un breve istante riprendo il mio sogno di volarmene via, lontano dalla giungla.
Ma i sogni sono belli solo quando si fanno ad occhi aperti.
Ed io, non appena li riapro, resto folgorata, come quando fissi il sole per qualche secondo senza riuscire a distogliere lo sguardo, solo che in questo caso il mio non era fisso sul sole ma suoi riflessi di un taglio a spazzola pieno di gel.
Si chiama Andrea Bianchi e non so spiegarmi come sia possibile, ma non mi ero mai accorta che i suoi occhi non sono soltanto marroni: c'è una sorta di corona gialla intorno alla sua pupilla, forse me ne rendo conto solo adesso perché si abbinano alla perfezione ai riflessi biondi che l'estate ha lasciato sui suoi capelli castani.
Percepisco di essere rimasta imbambolata a guardarlo per più di trenta secondi, così mi scuoto e mi ricompongo fissando gli occhi sul muro che ogni mattina erigo sul banco, formato dall'astuccio delle penne, quello delle matite e il diario.
Torna ad essere invisibile, mi dico.
Un altro colpo alla testa mi fa perdere l'equilibrio e io mi ritrovo abbracciata al banco senza vedere più niente.
«Scemi!», sento gridare.
È lui? È la voce di Andrea?
La maestra si accorge di quello che è successo perché la classe sembra essere diventata un circo di risate, allora anche lei inizia a strillare come una gallina in piena crisi esistenziale. «Luca! Leonardo! Vogliamo subito iniziare l'anno facendo un giro dal direttore?»
«Tieni», mi dice Andrea e sento la sua mano afferrare la mia per lasciarci qualcosa dentro. Stringo le dita e tastando capisco che l'impatto deve avermi fatto cadere gli occhiali.
Li indosso in fretta e scorgo la maestra Carla raccogliere l'arma del delitto, una bottiglietta d'acqua mezza piena. In effetti, ora sento la testa che mi scoppia dal dolore.
«Che difendi Piera la Stanga?», urlano alle mie spalle.
Piera la Stanga sono io, la bambina super alta e super malata con le lenti degli occhiali spesse come fondi di bottiglia.
Alzo lo sguardo, Andrea punta la giungla alle mie spalle come se stesse per attaccare, ma non risponde, va a posto.
La maestra Carla mi sovrasta: «Gaia, tutto bene?»
Non lo so, come si dice quando hai la pancia così in subbuglio che il Nord sembra essersi spostato a Sud e viceversa?
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La prima volta che non andò secondo i piani
Romance♧ IN CORSO ♧ Gaia Pieri, vent'anni, è allergica alle ingiustizie e colleziona sventure da tutta la vita. Presidentessa del Consiglio Studentesco del proprio Ateneo, due sono i sogni che rincorre da sempre: fare la magistrata e trovare il vero amore...