La sabbia è gelida. Mi riporta alla mente la stessa sensazione che ho provato questa mattina, quando, dopo lo svenimento, mi sono risvegliata sul pavimento del bagno del primo piano.
Il vento mi graffia la faccia e scuote le onde, che si infrangono sulla torre di vedetta di Vada, ormai in mezzo al mare.
È una storia che mi piace sentire, quella della torre costruita dai pisani mille anni fa, o una roba del genere – nel Medioevo, mi pare avesse detto mamma, la prima volta che me ne ha parlato. Serviva per avvistare i pirati da lontano, che volevano venire a saccheggiare il villaggio antico, ma anche per non fare incagliare le navi amiche nelle secche.
Mamma ha gli occhi che rimbalzano tra me e l'orizzonte, vorrebbe dirmi qualcosa o vorrebbe che io le parlassi, ma non ne ho voglia. Questa giornata è stata troppo dura e io sono triste, più inquieta del mare in questo giorno di settembre. Sospiro e chiudo gli occhi, quanto mi piacerebbe volarmene via, adesso.
Mamma mi stringe più forte, dovrei sentirmi soffocare, ma vicino a lei non ho mai paura. Sopra il sottofondo delle onde che danzano e si intrecciano, mischiandosi alla sabbia bianca della battigia, intona la sua canzone: «Non temere, amore mio, se mangiano il tuo zucchero, ti presto tutto il mio. Non temere la farfalla, vola in cielo, su una stella. Poi ti guarda da lassù, la tua bua non c'è già più».
È la mia canzone, quella che lei ha inventato per me il giorno che scoprirono questa cosa che mi abita dentro e che non posso sfrattare; e la farfalla, che tanto temevo e che mi rubava il sangue e mi bucava la pelle, è diventata la mia via di fuga quando tutto si impregna di pece nera.
Mentre sprofondo tra le braccia di mamma, mi sembra di annegare di nuovo. Lì, stesa sul lettino dell'ambulanza che macina asfalto, mentre l'abitacolo oscilla e trema, con mamma che mi stringe la mano e la bagna con le sue lacrime. Le luci sfarfallano, i monitor scandiscono il tempo al suono di bip cadenzati, e i paramedici parlano, rassicurano, mi guardano e sorridono. È tutto a posto, Gaia, dicono. Ma che ne sanno loro, del buio che somiglia tanto alla morte.
«Dov'è papà?», chiedo.
Mamma tira su col naso e si schiarisce la voce. «In fabbrica avevano il turno scoperto, non è potuto venire», sussurra, «Mi ha detto di dare un bacio alla sua bimba coraggiosa», e lo fa, mi bacia la fronte.
Ci sono abituata, papà non c'è mai. La fabbrica... lo odio, quel posto.
«Le abbiamo dato il glucosio», dice uno dei paramedici, quello mingherlino e alto più o meno quanto me, che è vero che ho undici anni, ma sono troppo alta per la mia età.
Mamma sembra essere sprofondata nel coma, ha lo sguardo perso e il paramedico non sa se ripetere quello che ha appena detto, la guarda come se avesse paura di disturbare il dolore. Io annuisco e lui mi sorride di rimando. «I valori di zucchero nel sangue stanno risalendo», asserisce l'altro, e non sa se rivolgersi a me o mia madre. Sembra che parlare con una bambina di valori del sangue e glucosio li metta a disagio, ma ormai sono grande, ci ho fatto l'abitudine e il linguaggio medico lo capisco abbastanza.
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La prima volta che non andò secondo i piani
Romance♧ IN CORSO ♧ Gaia Pieri, vent'anni, è allergica alle ingiustizie e colleziona sventure da tutta la vita. Presidentessa del Consiglio Studentesco del proprio Ateneo, due sono i sogni che rincorre da sempre: fare la magistrata e trovare il vero amore...