Prologo

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Manuel era felice di essere riuscito a chiarirsi con Simone dopo l'incidente. Quando aveva visto Simone ferito sotto casa sua, aveva temuto il peggio. Quella notte in ospedale non era riuscito a chiudere occhio, aveva continuato a fare avanti e indietro nella sala d'attesa, consumandone il pavimento.

"Manuel, devi calmarti. Prova a dormire. Non aiuti nessuno dei due facendo la notte in bianco" gli aveva detto sua madre, ma lui non era riuscito a calmarsi. Una piccola parte di lui aveva creduto che l'incidente fosse stato colpa sua: non avrei dovuto lasciarlo andare sapendo quanto era sconvolto, non avrei dovuto dirgli tutte quelle cattiverie.

Verso le quattro di notte, sua madre era riuscita a farlo sedere accanto a lei nella sala d'attesa e dopo un'altra mezz'ora di lotte e discussioni, era riuscita a convincerlo a prendere un po' di sonno, con la promessa di svegliarlo non appena ci fossero state novità.

Anita però non aveva rispettato la promessa e Manuel si era arrabbiato per questo, anche se in fondo l'aveva capita. Quando Anita quella mattina l'aveva svegliato e gli aveva detto che Simone si sarebbe ripreso, Manuel aveva sentito il suo cuore molto più leggero e si era sentito abbastanza sereno da riuscire a lasciare l'ospedale anche senza parlare con Simone.

La sera stessa, nella tranquillità della sua stanza, mentre era disteso sul letto a fissare le foto appese alla parete, si era chiesto come mai fosse stato tanto preoccupato per quel ricciolino romano, come mai si fosse sentito tanto in colpa. E fu in quel momento di riflessione, mentre osservava la foto che aveva fatto con Aureliano e Simone, che aveva capito che avrebbe dovuto scusarsi con Simone per le parole che aveva detto. Non che avesse mai pensato una sola parola di quel che gli aveva detto nel box, ma si era convinto di averlo fatto per il suo bene. Sapeva di portare solo distruzione alle persone che gli stavano intorno: aveva fatto soffrire Chicca, aveva messo nei guai sua madre che aveva rischiato la vita quando Sbarra l'aveva trovata e aveva corrotto l'animo buono di Simone.

"Tu mi fai troppo male, sei come un veleno" gli aveva detto Chicca, quando le aveva chiesto di tornare insieme e aveva ragione. Lui era un veleno, aveva rovinato tutti quelli che gli stavano accanto.

Simone era un bravo ragazzo prima di incontrare Manuel e da quando erano diventati amici aveva iniziato ad andare male a scuola, ad aiutarlo a compiere furti e poi aveva deciso di prendere il suo posto con Sbarra. Quello era troppo. Aveva dovuto fermarlo e per farlo non aveva trovato modo migliore che ferirlo. "Basta una tua parola per fargli molto male" gli aveva detto Dante settimane prima e lui non aveva usato solo una parola per ferirlo ma un intero monologo. Come poteva farsi perdonare ora?

Prese in mano il cellulare e digitò velocemente un messaggio per Simone.

"Bello scontro coi cassonetti, ma mi sa che sta volta hanno vinto loro" gli aveva scritto.

Non si aspettava che rispondesse subito, ma ci sperava lo stesso. Eppure rimase deluso. Il messaggio era stato visualizzato, ma nessuna risposta era arrivata. Attese dieci minuti e decise di scrivere un altro messaggio. Mentre digitava, arrivò la replica di Simone: "Cosa vuoi?"

Si sbrigò a digitare il messaggio e lo inviò.

"Ho sentito che ti sei salvato per un pelo. L'hai fatta la cazzata, eh?

Ti devo parlare, ti va se domani ti vengo a trovare in ospedale?"

Dopo una lunga attesa in cui poteva leggere la scritta "Sta scrivendo...", la risposta di Simone arrivò: un semplice e conciso "ok".

Quando il giorno seguente entrò nella stanza d'ospedale dell'amico, rimase fermo sulla porta. Era rimasto scioccato dalla visione che si era trovato davanti a sé. Si ricordava Simone ferito e senza sensi sotto casa sua, si ricordava la disperazione che aveva provato mentre chiedeva aiuto e si ricordava il viaggio in ambulanza quando ogni secondo era governato dal terrore che Simone non si sarebbe più svegliato. E ora lui era lì, disteso sul letto di ospedale, con la testa e il braccio fasciati. Lo fissava con i suoi occhi da cerbiatto in attesa.

"Come stai, Simò?" chiese Manuel, un po' per spezzare quel silenzio carico di imbarazzo, un po' perché era veramente preoccupato per lui.

"Meglio, tu?" la risposta di Simone era soppesata, come se non volesse sbilanciarsi mentre continuava a osservarlo attentamente. Nel frattempo, Manuel si allontanò dalla porta per avvicinarsi a una sedia presente nella stanza.

"Non so' io quello in un letto d'ospedale, me pare." Si sfilò la giacca verde che lo aveva riparato dal fresco venticello nel suo viaggio in ospedale e la poggiò sulla sedia. Aveva sentito un'improvvisa vampata di calore quando si era reso conto che era arrivato il momento di parlare con Simone.

Nessuno dei due proferì parola per un po' e la stanza si caricò di un silenzio pesante, carico di parole non dette e parole urlate fin troppo forte. Manuel capì che Simone aspettava una sua mossa: era stato lui a chiedergli di poter parlare ed era lui quello a doversi scusare, quindi iniziò.

"Senti, Simò, le cose c'ho detto nel box... non le pensavo, non le ho mai pensate. Non è vero che per me tu manco esisti, solo che..." abbassò lo sguardo sulle proprie mani. Senza neanche accorgersene aveva iniziato a giocarci, non riusciva a tenerle ferme. "Ti stavi immischiando in brutti affari per salvarmi la capoccia e volevo solo impedire che ti rovinassi. Però ho esagerato" sospirò. Si appoggiò con le mani allo schienale della sedia e fissò lo sguardo sulla fasciatura al braccio di Simone, per cui finse di avere molta curiosità. Non riusciva a sostenere lo sguardo dell'amico. "Non voglio perderti, io ti voglio bene come a un fratello"

Manuel prese un bel respiro. Sentiva di aver detto troppo, non era tipo da cose sentimentali, ma doveva a Simone delle scuse e questo era il meglio che sapeva fare. Sarebbe stato abbastanza? Non ne era sicuro e non aveva il coraggio di guardare il viso di Simone e scoprire che lo aveva perso per sempre; quindi, tornò a giocare con le sue mani fissandole intensamente.

Dopo un minuto buono di silenzio, Simone gli dimostrò che quelle scuse per lui bastavano e che la loro amicizia non era perduta.

E Simone glielo dimostrò di nuovo quando dopo un mese, uscito dall'ospedale gli chiese di accompagnarlo in cimitero. Voleva andare a trovare suo fratello, Jacopo, ma temeva di non farcela da solo. Manuel allora sarebbe stato la sua spalla su cui piangere e l'abbraccio forte che l'avrebbe sostenuto.

Arrivati in cimitero, quasi non si parlarono. "È qui" disse Simone, in piedi davanti alla tomba del gemello, prima che le lacrime iniziassero a rigare il suo viso. Queste le uniche parole che si rivolsero perché nel silenzio assordante che avvolgeva il loro abbraccio e accompagnava le lacrime di Simone le parole erano superflue.

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