Un ruggito di Giobbe

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Giobatta era un perdente nato.

C’è chi perde con rabbia, e impreca alla malasorte…Giobatta no: lui era un perdente-paziente. Un personaggio che si avvicinava molto al suo quasi-omonimo della Bibbia, e infatti l’”atta” terminale doveva essere stata aggiunta, nei millenni, al proverbiale Giobbe dei Sacri Libri.

Sopportava paziente e rassegnato i colpi dell’avverso destino, che in primis gli aveva riserbato quel nome, e poi un’infanzia tisichella, una giovinezza opaca, una maturità tirata via a strappi e ricuciture, fra mille avversità fisiche, morali, economiche.

Per toglierselo di torno, parenti distratti e scocciati gli avevano appioppato una moglie sciocca e bruttarella, che aveva contribuito a cementare la sua attitudine ad incassare cospique fette di rassegnazione.

Non ebbe discendenza, forse questo l’avrebbe  reso più combattivo; la Santippe un giorno, uscendo di casa, pensò bene di non tornarvi e sparì dalla sua vita. Non ne seppe più nulla.

Imparò a cucinarsi la minestra da solo e continuò, stancamente, a fare il suo mestiere di calzolaio, ragion per cui, nel quartiere, il suo nome era stato storpiato in quello di “mastro Ciabatta”.

A mettere sopratacchi e a riparare tomaie tirava in cassa quel tanto che gli permetteva di campicchiare, però ogni tanto qualcuno gli appioppava un tiro mancino. Come quella volta, che gli rifilarono una banconota da centomila stampata su cartaccia comune, un Caravaggio che più falso di così non poteva essere: ma Giobatta non se n’era accorto, e come avrebbe potuto? Lui non guardava i soldi che gli davano, li metteva in tasca senza nemmeno contarli, fiducioso e bonaccione.

A chi gli faceva notare – virtuosi farisei che lo consigliavano “per il suo bene” – quanto fosse pericoloso fare il figlio dei fiori, rispondeva che sì, probabilmente avevano ragione, ma che volete, il mondo è fatto così, se stiamo a morderci l’uno con l’altro tutto il santo giorno non ci sarebbe tempo di far altro, vi pare?

Sicchè Giobatta era campo di esercitazione dei zazzeruti giovinastri che studiavano per conseguire la Laurea in Delinquenza, ed avevano il loro Ateneo in un locale “Osteria Vini Birra Liquori” dirimpetto al suo botteghino di calzolaio.

Le studiavano tutte, per spremergli quelle quattro palanche di guadagno giornaliero: piccoli prestiti mai saldati, piagnistei per debitucci di gioco, o per comprare un mazzolino alla morosa, o anche -  sempre più spesso – le cinquantamila per una pera, implorate da un balordo stralunato e in crisi di astinenza.

Giobatta sospirava e vuotava le smunte tasche; un suo predecessore almeno s’era tenuto mezzo mantello, lui no, lui cedeva subito tutto, alla prima richiesta, perché era fatto così. Forse era il suo D.N.A. o forse – ma lui non se ne rendeva conto – era incline a leccare il suo prossimo anziché ringhiargli contro, come è naturale tendenza dell’essere umano.

Una sera, come tutte le altre sere appena faceva buio, Giobatta ripose i suoi arnesi, chiuse lo sgabuzzino dove teneva i suoi arnesi di lavoro e il suo panchetto, e si avviò verso casa, un casermone di periferia grigio e anonimo come lui, otto piani da superare con un ascensore asmatico e cigolante.

Aprì il portone e si avviò all’ascensore, e li davanti trovò due giovanotti, jeans sdruciti-scarpe di tela-codino-orecchino, tutto come da copione “perfetto malavitoso”.

Giobatta li conosceva, erano due fuoricorso di quella Università menzionata prima. Due cattivi, ma uno un poco più cattivo: si chiamava all’anagrafe Gambino Salvatore, ed era noto con il soprannome di “Caino”.

Giobatta sbuffò, per niente intimorito, e disse: “Levatevi dai piedi e fatemi salire, devo andare in gabinetto d’urgenza.”

“Ma guarda!” fece Caino sghignazzando “E ce l’hai, il gettone per il cesso? Andiamo, caccia la grana, se no te la puoi fare nelle braghe.”

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