inutile ripete quanto le mie, le nostre giornate siano state susseguite da loop pesanti di occhi e sorrisi spenti.
forse sarebbe meglio proseguire, poco dopo due anni, nacque mia sorella, che quanto noi, non vide cose molto felici in quel anno che abbiamo passato a vivere in quella casa difronte al lago.
il suono di una porta sbattuta a notte fonda rimbombò nelle mie orecchie, incominciai a piangere interrottamente sperando nessuno potesse accorgersene, mentre il salone continuava a riempirsi di risate e parole sfatte di mia madre che non riusciva a formare neanche una frase di fatto compiuto, la puzza di alcol sembrava avvolgere l'intera casa, la voce di mio padre spezzata che le chiedeva di stare in silenzio e fare più piano mi sbatteva dritto dentro con la stessa forza che lei ci mise nello sbattere quella porta.
quella notte pioveva a dirotto, con tanto di fulmini e tuoni che sembravano stare contro quel che era la quiete della notte.
rumori incompresi si spargevano lungo la stanza in cui mia madre avrebbe dovuto dormire, le mie lacrime ormai sembravano aver lavato quel cuscino freddo sopra il quale poggiai la mia testa.
non so cosa mi spinse a poggiare i piedi sul suolo freddo della stanzetta e correre verso la porta d'uscita, aperta essa, respirai più aria possibile e mi sembrava di respirare solo fumo marcio che bloccava l'entrata di ossigeno nei miei piccoli polmoni.
corsi incurante di tutto ciò che ci fosse a terra, con una semplice magliettina bianca che mi arrivava poco sopra le ginocchia, vetri sparsi di una bottiglia di birra mi fecero uscire sangue dal piccolo piede, non me ne curai più di tanto, poiché quel che avevo dentro mi faceva più male.
arrivai a quella che era la casa di mia nonna, la quale ci mise un po' ad aprire, ma poco ad accogliermi, andai a dormire in quella solita stanza e stranamente quel gatto quella sera non mi diede alcun tipo di fastidio, anzi, mi faceva sentire abbastanza al sicuro averlo accanto.
il giorno dopo, cercai gli occhi di mio padre, tornando a casa, entrai nella sua camera e la prima cosa che feci fu abbracciarlo senza sapere che quello poteva essere uno degli ultimi abbracci che avrei ricevuto da lui, una delle ultime volte in cui avrei sentito la sua voce a volte spezzata dal dolore, dal peso, dallo sapere quello che sarebbe accaduto pochi giorni dopo, senza pensare al fatto che, che quella fu una delle ultime volte in cui le sue mani calde sfiorarono il mio viso susseguito tutto da un 'Myliu tave, mažyti.' ovvero 'ti voglio bene, piccola'. quelle sue parole tutt'ora dopo ben quindici anni, le sento come se me le ripetesse ogni mattina.
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Frammenti di una vita a pezzi.
Humorla vita frammentata di un'adolescente cresciuta nel dolore