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La terza volta che Albert afferrò il telefono sbuffando, lo accese, controllò i messaggi, rispose a due o tre, e poi lo riposò sulla scrivania, Elia tornò a sedersi ai piedi del letto sconsolato. Aveva capito che l'altro non era abituato a scusarsi, che non lo riteneva necessario e che probabilmente pensava di essere l'unico a dover essere scusato. Non che avesse tutti i torti in quel frangente. Elia si accomodò reggendosi la testa con una mano e lo guardò furtivo attraverso gli spazi tra le dita: era posto di schiena rispetto a lui e, dai piccoli scatti delle spalle, ne percepì l'agitazione. Lo divertì supporre quanta frustrazione potesse attanagliare i pensieri di un giovane rampollo capriccioso e viziato, nonché alfa. Si era ormai fissata nella sua mente l'idea che meno una persona era tenuta a dare più sarebbe stata vile, facile alla menzogna e disposta a qualsiasi indecenza per un tornaconto personale.

«Potresti chiamare i tuoi?»

Elia tornò nel proprio corpo e si ricompose, sorpreso da quella richiesta. Strana, perché sembrava quasi che Albert stesse chiedendo aiuto proprio a lui. Non era quindi la sua presenza a metterlo a disagio e, anche se la cosa non era possibile, vista la grinta di qualche minuto prima, avrebbe scommesso che aveva paura. «Credo che siano i tuoi a decidere se aprire o meno, devono avere la certezza della tua disponibilità; sarebbe sospetto se chiamassi i miei, non trovi?»

Albert annuì e assottigliò le labbra. Le persone parlavano di vita sociale senza immaginare quanto la cosa lo irritasse. Compresi i suoi genitori. Lavoravano, dormivano, mangiavano, oziavano e nel frattempo sentivano il bisogno di condividere la loro routine noiosa, inutile e priva di senso. La cosa peggiore però, era quando pretendevano che anche a lui andasse bene. Debole e codardo, inspirò dal naso riempiendo i polmoni. «Non ho il coraggio di scappare, ma odio quello che c'è qui.»

Cosa intendesse Albert, e cosa potesse c'entrare con la necessità di chiamare qualcuno che andasse a liberarli, non fu assolutamente chiaro a Elia. Dalla descrizione fatta dai signori Mordini, il figlio avrebbe dovuto essere un esemplare di rara bellezza, nonché dal quoziente intellettivo ben oltre la media. In quel momento, Elia si chiese a quale media avessero potuto riferirsi. «Albert, non ho nessun problema ad ascoltare se hai voglia di parlare, ma adesso fai uno sforzo e prova a chiamare tua madre. Siamo tesi entrambi, farei fatica ad aiutarti.»

«Non sembri teso, per niente...»

«Sono bravo a controllarmi, ma anche tu hai fatto un grande cambiamento da poco fa» constatò sorridendo, con la speranza che, valorizzandolo, avrebbe ottenuto la sua fiducia.

«Siete tutti così?»

«Chi?»

«Voi omega... siete tutti così falsi?»

Elia trattenne a stento un brontolio gutturale, ma non fu sufficiente quello sforzo, perché la sua voce uscì comunque leggermente incrinata. «Non sto fingendo, né mentendo. Sto solo frenando quelle emozioni che mi farebbero allontanare dal mio obiettivo. Immagino che non sia una cosa che tu abbia mai dovuto fare.»

«Credi che ti stia dando del poverino?» chiese Albert, ridacchiando e ruotando la sedia nella sua direzione, per osservarlo con un sorriso strafottente.

«No, per niente, ma non volermene se penso che invece tu lo sia» rispose Elia agganciando i suoi occhi con decisione e fermezza.

Una forza che l'altro non aveva mai visto in nessun omega - non che ne ricordasse tanti, eccetto la madre o Davide – e che, per un attimo, gli diede la sensazione di dover essere lui ad abbassare lo sguardo. Quella leggera pressione al collo, come se gli occhi di Elia gli stessero bloccando l'aria appena davanti la bocca, lo fece rabbrividire. Se glielo avessero raccontato non lo avrebbe mai creduto possibile. «In base a cosa ti hanno scelto, i miei?»

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