L’ultima lattina cadde giù di colpo, sembrò esitare solo un attimo, o almeno così mi parve, mentre con le mani mimavo la messa a fuoco di quell’immagine.
«Claudio dai giochiamo di nuovo !»
Il vento non prometteva nulla di buono quel giorno. Il muretto su cui erano posate le lattine colme di terra, fu letteralmente tirato a lucido da una folata.
«oh che pizza, per fortuna le abbiamo appesantite» disse Filippo mentre tirava l’ennesima palla a vuoto.
Le fronde dell’albero al di là del cortile di casa, ondeggiavano festanti ai miei occhi. A dirla tutta, tendevo a visualizzare ogni cosa a modo mio, con l’estro che mi caratterizzava e che di certo non passava inosservato.
«mi sa che tra poco ci chiameranno per rientrare. Uffa però si sta benissimo»
«Già» dissi.
Mentre lasciavo cadere l’ennesima lattina in terra, curvavo leggermente la testa provando a immaginarne il movimento a rallentatore.
«Dai però! Come ci riesci ?» esclamò Filippo.
(Filippo è il mio migliore amico. Usciti da scuola siamo soliti tornare a casa insieme, per poi fermarci a giocare tutto il pomeriggio. Sua madre fa sempre tardi, perciò Caterina, la mia mamma, si è offerta di prenderlo da scuola al suo posto).
«Semplicemente prendo la mira» dissi.
Una fragorosa risata tra noi chiuse la giornata di gioco, almeno quel giorno.
La sera, dopo cena, prima di coricarmi disegnavo col pastello a cera le immagini salienti della giornata. Erano per lo più scarabocchi, poiché mi riusciva bene solo il visualizzare le scene, ma a disegnarle non ero proprio capace.
«ancora sveglio ? Che fai? A letto dai è tardi».
«Si mamma ancora un attimo».
«Ma a cosa ti servono tutti questi disegni».
«A ricordare».
L’espressione di mamma mutò solo un secondo, passando dal sereno al dubbioso.
«Cioè ?»
«Come in una fotografia mamma. Quando la rivedi dopo anni ti ricordi dove sei stato, dei bei paesaggi eccetera. Ecco io faccio fotografie con la mente»
«Allora sarà meglio che ti compri una macchina fotografica prima che ti mortifichi con i disegni» disse scherzando la mamma.
«Mmmh ok» risposi con un ghigno.
In realtà non me la sentivo di continuare ad affrontare quella conversazione. Sapevo quanto era difficile riuscire a strappare un regalo a mia madre, e quanto mi sarebbe costato, in termini di studio, realizzare quell’obiettivo. Sarebbe stato inoltre difficile spiegarle tante altre cose di cui, al momento, ero il solo depositario.
La quinta elementare era uno strazio e francamente non ci tenevo ad avere una media alta. Tuttavia eccellevo nelle materie matematiche e scientifiche. I maestri non si capacitavano di come facessi, data la poca apparente applicazione.
In italiano e storia invece la scusa era lei, la biondina del banco davanti, con la quale amavo parlare educatamente snocciolando sempre nuove parole e situazioni. Da buon chiacchierone amavo vedere il nasino di Sofia arricciarsi ogni volta che scovavo un nuovo vocabolo. Per me era la pace, forse l’unica ragione per la quale affrontavo stoicamente (bella parola eh? L’ho appena trovata nel vocabolario) l’ultimo anno delle elementari. I contorni del viso di Sofia mi erano così familiari da volerne avere sempre nuove pose. Così nell’ingenuo gioco dello scherzare, imprimevo nella mente ogni sua espressione.
«Amico, ti stai innamorando».
Intervenne Filippo nel vedermi assorto sempre più spesso in quel magico mondo in cui mi rifugiavo.
«Naa scherzi ? Mi piace vederla felice. È amica nostra ».
«Ti piace e basta».
«Si vabbè Infatti è fidanzata con te».
Filippo le aveva chiesto di mettersi con lui con il classico foglietto a opzioni (Si /No). Io lo seppi quasi subito e ne fui felice, apparentemente disinteressato a dire il vero, del resto avevo ben altri problemi da risolvere. L’indomani, non ci sarebbe stata scuola e avevo preteso che la mamma mi portasse a vedere qualche macchinetta fotografica…
Così andò’, anche se con qualche variazione, poiché approfittando della distrazione di mamma, mi avventurai in un mercatino delle pulci. Un negozio disordinato per me, con molti oggetti ammassati a caso, che si contrapponevano all’ordine delle cristallerie che erano invece meticolosamente disposte su lunghi tavoli. In un angolo erano allineati televisori stereo, vecchi videogiochi e lei, una Canon non troppo moderna, ma nemmeno tanto antica, che mi fissava curiosamente dalla vetrina in cui era riposta.
Le urla preoccupate di mamma disturbarono, purtroppo, il mio fissare e uscii alla svelta dal negozio.
«Mamma, mamma ho trovato la macchinetta! Vieni !»
Sarà stato il giorno libero, sarà stato lo spavento della mamma, ma finalmente ebbi il mio preziosissimo regalo, la lente attraverso cui guardare il mondo, la lente attraverso cui guardare me stesso.
Mi misi subito a prepararla, mettendo in carica la batteria e girando la ghiera dei programmi per vedere come funzionava. Non vedevo l’ora di uscire a guardare con effetti speciali, quello che già vedevo normalmente.
Mi ero convinto che nessuno sarebbe stato in grado di capirmi. Persino Filippo aveva rinunciato a comprendere la ragione di questa mia passione al limite della fissazione.
Ricordo ancora quando gli raccontavo di vedere la vera essenza delle cose e che questa emergeva solo fotografandola nella mente. In tutta risposta Filippo mi canzonava passando rapidamente ad altro discorso ben più leggero.
Pensavo questo mentre continuavo a lucidare la mia Reflex controllando con impazienza che la lucina del caricabatterie si spegnesse. L’attesa era una cosa estenuante per me, era già difficile restare fermo, figuriamoci attendere.
D’improvviso la lucina si spense e il tempo tra il raccogliere le batterie e posizionarla al suo posto si compresse per distendersi nel momento di uscire a scoprire il mondo.