❥ 𝕷'isola che non c'è (più)

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Ce ne tornammo insieme da scuola anche quel giorno come tutti i giorni. Stavamo camminando uno accanto all'altra, tra buche e lattine, e ci spintonavamo di tanto in tanto come due ragazzini. Ragazzini quali eravamo, in effetti, nonostante la vita ci avesse strappato via le illusioni troppo presto.

Quel giorno mi giravano particolarmente le palle. Più del solito, insomma. A scuola, il professor Mannoni ci aveva propinato l'ennesima vigliacca "opportunità" di guadagnare crediti formativi. L'unico pregio di quell'uomo era quello di essere un abile intrallazzatore: per convincerci faceva leva sul fatto che era nostro professore, poi sistemava il tutto a livello burocratico senza stress, perché era pure vicepreside. E questo riassume perfettamente tutto ciò che c'è da sapere su Mannoni.

Dietro falsissimi buoni propositi, era ovvio che il suo vero scopo fosse quello di usarci come camerieri gratuiti, per di più fuori orario scolastico. Quel giorno si era trattato del reclutamento di "volontari" per un servizio di catering, al matrimonio di chissà quale suo importante conoscente.

Ma non era stato nemmeno questo il vero problema.

Ad avermi fatto davvero, ma davvero incazzare, era stato Luca. Nel sentirsi chiamato in causa da Mannoni, non si era limitato ad accettare l'incarico come una qualsiasi persona normale che non vuole avere la certezza di ripetere l'anno già a gennaio. Lui no: «Prof, si offre anche la Baccini.» aveva proferito tomo, sollevando pigramente gli occhi scuri e sempre arrossati sull'omuncolo che per disgrazia di Dio occupava l'altro lato della cattedra.

La mia testa era schizzata su Luca alla velocità della luce nel sentirgli pronunciare il mio cognome. Cosa che, tra l'altro, accadeva con la stessa frequenza con cui iniziavano a fioccare gioie nella mia vita, cioè mai. Lo avevo incenerito con uno sguardo al cianuro e la bocca semiaperta che mi faceva sembrare più un'orata al cartoccio che una persona.

A pensarci bene, dovrei ringraziare quel briciolo di buonsenso che mi era rimasto incastrato tra i neuroni bruciacchiati per non aver cacciato fuori tutti gli improperi che in quel momento mi stavano vorticando dentro. Roba che gli scaricatori di porto, a confronto, sarebbero impalliditi come verginelle in un sexy shop.

«Quando? Dimmi più o meno quando te l'ho chiesto di mettermi in mezzo a st'impiccio. Chissà come non aveva scelto me, stavolta, e tu che fai? Mi ci butti dentro? A volte penso che sei un sadico del cazzo, Lù, uno che si diverte a vedere le mie palle frantumarsi. Le. Mie. Povere. Palle.» mi lamentai lungo il breve tragitto da scuola verso casa.

Il cielo sulle nostre teste sembrava spaccato in due, da un lato i nuvoloni neri che ci avevano tediato per tutta la mattina, dall'altro nastri di azzurro sbiadito paventavano la speranza di una rischiarata.

Con la mia vista periferica vidi comparirgli l'ombra di un sorrisetto divertito, che tentava in tutti i modi di trattenere. Beh, non avrebbe dovuto. Era l'unica espressione che gli era rimasta invariata nel tempo, una di quelle pochissime cose che nemmeno l'accenno di barba, qualche brufolo e la crescita spropositata e repentina della sua altezza erano riusciti a cancellare.

Mi venne una voglia assurda di caramelle gommose nel vederlo comparire sul suo volto, e fu solo per uno strano senso del pudore - che non avevo mai avuto e che chissà da dove era sbucato fuori - che non gli chiesi se per caso non ne avesse qualcuna nello zaino.

Quando eravamo piccoli, per comprarle sgraffignava sempre qualche spicciolo dalla borsa delle "amiche" che suo padre si portava a casa la notte. Sapeva che andavo matta per quegli orsacchiotti fatti di glucosio, coloranti e biglietti di sola andata per il dentista, così non c'era un giorno che non li tirasse fuori dall'Invicta sbiadito e me ne offrisse. Lui ne mangiava sì e no un paio, io ero capace di dare fondo a tutto il resto del pacchetto.

Questa non è una favola DisneyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora