❥ 𝕮appuccetto Rosso

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Ero al terzo Martini.

I bicchieri di champagne che avevo buttato giù avevo smesso di contarli da un po', invece.

Io e Bobbi eravamo tornati nel salone principale ed ero finalmente sbronza abbastanza da non sentire più tutte le sue chiacchiere vuote con questo o quell'altro uomo d'affari, direttore generale della qualunque o amministratore delegato di stocazzo che, incrociandolo, si fermavano a parlare con lui.

Non ne potevo più. Mi limitavo ad annuire e sorridere, giusto per non dare l'idea di avere il cervello completamente scollegato, ma nella mia testa c'erano tutt'altre immagini.

A terra c'era forse più di un milione di lire in Cristal e Dom Pérignon, che continuavano a traboccare dalle coppe di cristallo a ogni brindisi, a ogni strusciamento di corpi in quella sorta di ressa rarefatta, a ogni passo barcollante di chi aveva ormai i sensi troppo annebbiati. E io riuscivo solo a pensare a quanto sarebbe stato bello far cadere un fiammifero acceso in mezzo a tutto quell'alcol e vedere divampare un incendio.

Avrei dato fuoco volentieri a tutto quello sfarzo, a quei vizi, a quel lusso sfrenato.

Ma, forse, non ce n'era neanche bisogno: quel posto era già un inferno così, solo che le fiamme non bruciavano la pelle. Bruciavano le anime.

Non sapevo che ora fosse. A me sembravano passati secoli dal nostro ingresso alla villa.

Buttai giù gli ultimi sorsi del mio Martini. L'oliva non la mangiai perché pensavo che solo addentandola la nausea che continuavo a provare si sarebbe di sicuro trasformata in qualcosa di più concreto e maleodorante. Erano giorni che ne soffrivo, e quella salsetta maledetta che Bobbi mi aveva buttato a forza in bocca non mi aveva aiutato per un cazzo.

Stava conversando animatamente con un tizio da un tempo che mi parve infinito, in merito a una qualche pratica incagliata che stava creando non pochi problemi all'azienda di famiglia.

Beh, la famiglia di sua moglie, per la precisione.

Alla fine anche Bobbi era un altro schiavo, solo vestito meglio.

Roteai gli occhi al cielo, annoiata. Di guardarmi attorno non ne avevo proprio più voglia. La disco music old school continuava a riverberare sempre più forte tra le mura; al centro della sala il classico siparietto di ragazze che si strusciavano ai corpi vegliardi di chi poteva essere il proprio padre o, in alcuni casi, addirittura il nonno. Qualcuna più ardita si alzava impercettibilmente la gonna sulle cosce a ogni movimento, arrivando quasi a mostrare i glutei mentre l'impomatato di turno le sbavava sul collo lasciando scie simili a quelle delle lumache. Li tiravano per le cravatte e ancheggiavano provocatoriamente, e quelle mani raggrinzite e sporche di evasione fiscale, riciclaggio e favoreggiamento andavano a infilarsi sotto i loro vestiti, in una specie di danza propiziatoria all'accoppiamento, nei casi in cui ancora era possibile l'erezione.

Era uno spettacolo penoso, che non riuscivo a non guardare con commiserazione. Per un attimo mi chiesi se per caso, alla fine, non eravamo più fortunati noi, giù al Chernobyl, che perlomeno ci bastava smezzarci una canna su un muretto sbrecciato per trovare qualche attimo di felicità.

Fu quasi folgorante quella riflessione.
Noi non avevamo niente, eravamo indietro con le bollette, ci capitava di doverci sballare con vodka scadente e cardioaspirine nei periodi di magra e ci fregavano la bicicletta con tutto il palo a cui era legata pur di farci quattro lire al ciclonoleggio davanti all'autostazione.

Eppure, quella vita strana e distorta, noi ce la godevamo appieno.

A immaginare pirati, sirenette e coccodrilli dentro a un'officina dismessa dove si respirava più amianto che ossigeno, a fare indigestione di orsetti gommosi sgraffignati da Cerullo, che faceva palesemente finta di non accorgersene, a passare i pomeriggi su una panchina del parchetto pieno di pusher a disegnare e scrivere con il pennarello sulle scarpe consumate del mio stronzo di poche parole preferito.

Questa non è una favola DisneyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora