Credevo che la segretaria sarebbe stata stupita dal vedermi oppure arrabbiata perché avevo rovinato per sempre il suo bellissimo e infernale poster. Invece non si mosse.

Aveva la testa reclinata e non riuscivo a vederne il volto. Pensai che dormisse.

Solo che le persone si muovono e respirano quando dormono, giusto? Non sono così silenziose.

Mi venne un dubbio. In quel momento non pensai nemmeno all'omicidio, se devo essere sincera. Pensai che si fosse sentita male e che fosse mio dovere fare qualcosa per aiutarla.

Le poggiai una mano sulla spalla e mi accorsi che non emanava alcun calore.

Né era fredda.

Era semplicemente priva di temperatura.

La scossi e ottenni di farla inclinare.

In quel modo sì che potevo vederla in faccia.

Non era quella che avevo perso, tornata in qualche modo con dimensioni maggiori, e assomigliava proprio alla segretaria con la quale avevo parlato, ma non c'erano dubbi. Era una bambola di pezza a grandezza umana.

Basta, dovevo uscire di lì.

Non sembrava esserci nulla di strano oltre l'ingresso. Vedevo persino la mia auto parcheggiata nel parco. Qualche foglia degli alberi sovrastanti era caduta sul cofano.

Abbassai il maniglione con cautela. Non si poteva mai sapere.

«Ferma» mi intimò una voce familiare, e io non potei fare altro che ubbidire.

Proprio come avevo ubbidito il giorno in cui mi aveva telefonato, lo stesso che mi ero addormentata davanti al mio disegno.

Mi aveva detto di aderire alla terapia e io in un attimo avevo abbandonato tutte le mie remore, ero salita in auto e avevo guidato fino a lì. Iniziavo a ricordare.

Era la voce di un uomo anziano. Prima di incontrare il dottor Haustier, credevo fosse la sua, ma quando poi mi ero ritrovata davanti un uomo molto più giovane, mi ero dimenticata di chiedere a chi appartenesse.

Mi girai alla ricerca dell'anziano, ma non c'era nessuno. Solo la bambola e me.

La voce riprese a parlare e io credetti provenisse da qualche altoparlante.

«Ti avviso. Se esci, potresti essere trascinata da ombre oscure nei meandri del manicomio.»

«E se non lo faccio?»

«Se decidi di restare e di non aprire la porta, sarà per sempre.»

«E che razza di scelta è?»

«Quella tra il rischiare e il rimanere qui.»

Guardai la bambola della segretaria. Sembrava felice, così inconsapevole. Magari avrei potuto farla andare in pensione e sostituirla. Non sembrava molto operativa.

In fondo avevo sempre sognato la monotonia di un lavoro d'ufficio. Mi sarei limitata a fare l'artista della domenica.

«Sinceramente?» esordii. «Rischiare ormai mi piace.»

Raccolsi tutto il coraggio e uscii.

Scesi i gradini della clinica e arrivai alla mia auto. Illesa. Le ombre mi stavano lasciando in pace o forse non esistevano nemmeno.

Siccome però nessuno me lo poteva assicurare, lanciai lo stesso delle occhiate nervose tutto intorno, mentre mi tastavo alla ricerca delle chiavi.

Era incredibile che non le avessi perse dopo tutto quel trambusto. Mi accorsi di quanto mi tremavano le mani solo quando venne il momento di infilarle.

Mi calmai definitivamente quando feci manovra e dallo specchietto retrovisore vidi scomparire la clinica.

Presto i cartelli stradali mi avvisarono della vicinanza al centro. Cominciai a canticchiare la stessa canzone con la quale il coro mi aveva attirata nella stanza con la bambolina.

Ero libera.

Poi un gatto dall'aria familiare mi tagliò la strada e io per evitarlo uscii dalla carreggiata e tutto divenne buio. 

La Venere di MagritteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora