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"Hai rovinato tutto, sei il degrado della specie Alexia Cristal Books" disse colui che consideravo un padre mentre scaraventava in terra tutto ciò che aveva a portata di mano.
Avevo da poco compiuto quattordici anni e ogni sera, come di consueto, venivo considerata un problema. Per ignorare tutto il casino che faceva non bastava isolarsi e fissare il vuoto perdendomi nei miei giovani pensieri era troppo difficile, il frantumarsi di quadri, bicchieri continuava a rimbombare nella mia mente.
Lion Brooks, era ancora un affascinante uomo per i suoi cinquant'anni, prestigioso avvocato di giorno, pessimo padre di notte. Fino ai miei dodici anni era anche ottimo a ricoprire il suo compito di genitore, amorevole, una persona di cuore ma dopo la separazione è diventato il diavolo in persona.
"Quella puttana di tua madre sarà di sicuro con qualche uomo e io devo crescerti da solo, sei un peso, se non fosse per te noi saremmo ancora felici...". Avevano litigato perché mia madre mi picchiava sin da piccola ma non è servito a molto, quando finalmente smise lei, iniziò lui. Pulivo casa ogni giorno, ero una studentessa modello ma a lui non interessava, bastava una piccola scintilla per farlo scattare, che fosse un piatto nel lavandino o una camicia non stirata. Passavo intere giornate per rendere la casa perfetta, non volevo deluderlo, in fondo eravamo solo noi due e ci dovevamo aiutare l'un l'altro.
"Vieni qui che adesso ti faccio vedere" mi tirò uno schiaffo e da lì in poi ne arrivarono altri anche con l'aggiunta di calci, poi, il buio.

Il suono fastidioso della sveglia mi diede il coraggio di aprire gli occhi. Mi trascinai in bagno a stento, le fitte alle tempie erano diventate più pesanti rispetto alla sera prima. Mi guardai attentamente allo specchio, due solchi violacei mi segnavano gli occhi per le poche ore di sonno delle ultime notti, i miei capelli neri, perfettamente piastrati, cadevano morbidi sulle spalle e poi c'era lei, quella dannata cicatrice che continuava a segnarmi e a rendermi unica ogni giorno.
"Forza e coraggio che oggi sono ventuno" mi dissi, cercando un minimo incoraggiamento per trovare la voglia di farmi una doccia e per riuscire ad affrontare la giornata. Ma quello non lo presi come uno slancio, anzi, era il motivo per cui sarei voluta tornare subito nel letto a nascondermi fino l'indomani.
Aprì l'acqua della cabina e richiusi subito le ante per non bagnare a terra, nonostante siano passati anni continuo ad essere quasi maniacale verso il pulito. Mi piazzai di nuovo davanti allo specchio e lentamente iniziai a spogliarmi meccanicamente, senza distogliere mai lo sguardo dal mio riflesso ricco di peccati. Tolta la mia solita t-shirt oversize che fungeva da pigiama cominciai a intravedere ogni mia cicatrice, provai a sfiorare la più piccolina, quella situata sulle clavicole, ma istantaneamente mi sentì come bruciata da quel tocco e ritrassi la mano velocemente, tornando a rimuovere gli ultimi strati di vestiti rimasti.

Dopo essere uscita dalla mia doccia rigenerante, tornai in camera mia per vestirmi, presi velocemente un set coordinato in pizzo per l'intimo e dei pantaloni della tuta grigi un po' stropicciati al fondo dell'armadio, mancava solo la maglietta che trovai subito dopo, nera e perfettamente stirata il giorno prima.
"C'è troppo silenzio per essere mezzogiorno" sussurrai uscendo dalla mia stanza.
Scesi le scale vetrate e lì trovai Nate, con la sua schiena nuda ricoperta quasi interamente di inchiostro, intento a cucinare qualcosa. Mi fermai appoggiandomi al mancorrente per osservarlo al meglio. Era incantevole, Nate era la perfetta rappresentazione del peccato e lo sapeva, per questo due anni prima si fece tatuare un serpente con una mela tra le fauci, era una rivisitazione molto accurata e realistica del peccato originale.
Ad un tratto si girò come se avesse sentito il mio sguardo attento bruciare su di lui, non disse niente, aprì solo le braccia in segno di pace. Sfortunatamente capì fin troppo velocemente che non mi sarei gettata in un abbraccio strappalacrime e si ricompose tornando a cucinare di spalle.
Finalmente, dopo un tempo che sembrò infinito, mi mossi. Lentamente, senza fretta, scrutando attentamente ogni angolo.
Eravamo sei in questa casa ed era alquanto impossibile che ci fosse così tanta calma, in tre anni non c'era mai stato un silenzio tombale a mezzogiorno. Qualcuno stava tramando qualcosa.

È questione di attimiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora